Raccontare la Shoah alla seconda generazione

Adriano Sofri

Una graphic novel di Michel Kichka e i ricordi del padre tramandati al figlio

Ho letto e guardato, in ritardo e solo grazie alla raccomandazione di un’amica, una graphic novel così bella che la raccomando a mia volta. L’autore è Michel Kichka, 64 anni, prestigioso disegnatore satirico e scrittore belga-israeliano. Questo libro si intitola “Seconda generazione”. E’ del 2012, in Italia l’ha tradotto Rizzoli Lizard nel 2014. Due anni fa il Museo ebraico di Bologna gli ha dedicato una mostra nel Giorno della Memoria. Il padre di Michel è reduce “dai campi”, unico superstite della sua famiglia, e a lungo tace sul proprio passato, ma lasciando che esso traspaia e per così dire lo giustifichi, lo immunizzi, attraverso segni o gesti allusivi. Non è il silenzio chiuso di tanti sopravvissuti, piuttosto un silenzio che significhi meglio e faccia pesare la dismisura che ha alle spalle. “Questa minestra mi ricorda Auschwitz. E sapete perché?”. “No, papà”. “Perché là non ce l’avevamo”. Il padre ha messo su famiglia, quattro figli, Michel è il più grande dei due maschi. Il fratello minore, Charly, si suiciderà: “Un’altra vittima della Shoah”.

 

Allora il padre rompe il silenzio e racconta di sé: di sé, non di Charly. Un altro lutto eluso. Poi, ormai anziano, diventerà un testimone perfino fluviale della propria storia in libri, lezioni nelle scuole, accompagnamenti di gruppi ad Auschwitz, non una commemorazione mancata, geloso degli altri testimoni. “E io ho cominciato a sviluppare una certa reticenza rispetto alla Shoah”. La seconda generazione ha cercato spesso di identificarsi con la vicenda paterna. Il mio amico Daniel Vogelman l’ha fatto in un libro breve che fin dal titolo fonde le due figure: “Piccola autobiografia di mio padre”: “Io, purtroppo, non gli ho mai chiesto nulla”. Il sottotitolo di Michel è capovolto: “Quello che non ho mai detto a mio padre”. “Lui non mi racconta la sua Shoah. Io non gli racconto i miei incubi”.

 

Kichka ha una formidabile ironia, ma sa che l’ironia è una risorsa troppo facile dell’intelligenza di fronte al dolore: così il suo racconto è insieme ironico, divertente spesso, e capace di rispetto e di commozione. Dice di avere scritto prima il testo, come per un libro di sole parole e di aver poi deciso di disegnarlo. E’ stato bravissimo, i disegni non sono illustrazioni del testo, mostrano cose che le parole scritte ignorano. C’è una tavola alla maniera di Saint-Exupéry, il piccolo Michel sull’asteroide chiede a suo padre: “Dessine-moi une famille!”. C’è una tavola capitale: la lettera che Charly ha spedito a Michel prima di uccidersi, c’è stato uno sciopero delle poste, Michel era affranto dal pensiero che se ne fosse andato senza lasciargli un messaggio e ora l’ha ricevuto. E’ seduto sul divano, il suo figlio piccolo gli chiede: “Va tutto bene papà?”, e lui con la faccia estasiata e la busta sul cuore esclama: “Charly mi ha scritto!”. Accanto al divano il loro cane maculato sulla cui testa si alza il fumetto coi pallini del pensiero: un osso. Dice, Charly, alla fine della lettera in cui descrive il proprio fallimento di uomo e di giovane padre: “L’esempio di papà e della mamma non sarà bastato”. Alla fine del racconto succede che anche il lettore voglia bene a quel padre sempre eccessivo che insegue l’enormità di ciò che è stato, e voglia bene con una solidarietà fraterna a Michel e ai suoi. Non si viene meno alla singolarità della Shoah se si riconosce nella seconda generazione una condizione universale, la più significativa e incerta, del mondo di oggi: quando il sentimento dei “venuti dopo” appartiene già ai vecchi, o viaggia fortunosamente con gli adolescenti migranti.

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