Arturo Carlo Jemolo (via Wikimedia)

Lettere e "fiuto", a pochi mesi dal Manifesto della razza

Adriano Sofri

“E poi verrà la nostra volta, dei mezzi”, scriveva Arturo Carlo Jemolo, illustre giurista e storico della Chiesa, figlio di madre ebrea

Trovo in uno studio di Fabio Franceschi su “Stato, Chiese e pluralismo confessionale” (2014) la citazione di un brano di una lettera di Arturo Carlo Jemolo, illustre giurista e storico della Chiesa, a Mario Falco (le lettere di Jemolo all’amico giurista, fratello dello storico Giorgio, ebreo e autore, nel 1930, della legge che regolava i rapporti fra stato fascista e comunità ebraica, sono state pubblicate in due volumi, Giuffré 2005). E’ il febbraio del 1938 e Jemolo scrive: “Riguardo alle cose israelitiche io non so nulla di positivo, ma il mio fiuto – che fin qui in materia politica mi ha sempre portato a prognosticare esattamente – mi dice che in Italia le cose non andranno oltre […]; quindi caricature antisemite nei giornali umoristici, articoli antiebraici, ristampe di Preziosi [il fascista e razzista traduttore dei 'Protocolli…'], estremismi dal Senato, Camera, Accademia, eccetera: ma non penso che si andrà oltre”. Mancavano meno di cinque mesi al Manifesto della razza, e poco più di sei ai “Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista”.

   

In agosto, quando era già chiara la catastrofe del suo “fiuto”, Jemolo, figlio di madre ebrea per nascita ma convertita al cattolicesimo e lui stesso cattolico praticante, scriveva all’amico già cacciato dall’università: “So che molti meticci come me sono inquieti, e prevedono che verrà la nostra volta”.

    

E ancora in settembre, chiamando i “meticci” i “mezzi”: “E poi verrà la nostra volta, dei mezzi”.

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