La sagoma della statua di Arpad Somogyi, il 'ragazzo mietitore', di fronte al palazzo del Parlamento a Budapest (foto LaPresse)

Orbán, l'anti Europa non è un musical

Maurizio Crippa

Le ragioni della diffidenza ungherese sono antiche. Ma dove si rompe il patto?

La notizia che la versione ungherese del musical “Billy Elliot” è stata sospesa perché troppo omosessuale non è destituita di fondamento, ma è pleonastica e non aiuta a capire il problema dell’Europa con l’Ungheria. La notizia utile, per restare ai musical, è che stasera e domani sulla Piazza degli Eroi di Budapest andrà in scena un kolossal rock dal titolo “Treaty of Trianon”. Il Trattato del Trianon, 4 giugno 1920, pose fine alla Grande guerra per quel che riguardava il regno di Ungheria: in maniera sciagurata, mutilandolo di due terzi del suo territorio. Il regista dello show, membro del partito di Viktor Orbán, ha chiarito che l’intento dello spettacolare musical, che abbraccia tutta la storia ungherese, è di aumentare il tasso di patriottismo eccitando lo storico vittimismo ungherese – peraltro già eccitato da tempo, essendo uno degli ingredienti del successo di Orbán. Il quale primo ministro, qualche giorno fa, in una pubblica occasione, ha ripetuto: “Dai tempi del Trianon non siamo mai stati così vicini a ricostruire il nostro orgoglio nazionale”.

     

I simboli sono impalpabili come i sentimenti, ma hanno concretamente a che fare con la difficile natura politica e giuridica del rapporto tra l’Ungheria e l’Unione europea, di cui Budapest fa parte dal 2002, con adesione agli accordi di Schengen. E’ di qualche giorno fa l’approvazione da parte del Parlamento ungherese del pacchetto di leggi anti immigrazione cosiddetto “Stop Soros”, che prevede la criminalizzazione dell’immigrazione clandestina, ma anche il carcere per le persone o le organizzazioni che la favoriscono o la appoggiano pubblicamente. Tra le nuove norme ne spicca una, per peso specifico, perché modifica addirittura la Costituzione del 2011: “Collocare cittadini stranieri sul territorio del paese è vietato, salva l’autorizzazione del Parlamento”. Insomma per la Costituzione ungherese soltanto i cittadini stranieri in possesso di permessi rilasciati dalle autorità ungheresi avranno diritto legale di residenza in terra magiara. 

        

I dettagli tecnici e giuridici di queste leggi sono complessi, e sono probabili contenziosi nelle sedi internazionali deputate. La filosofia che esprimono, ridotta in moneta corrente, è più semplice: per lo stato ungherese non vale la stessa filosofia che permea, con tutte le contraddizioni a tema dei dibattiti di questi giorni, il pensiero dell’Europa.

   

Qualche giorno fa Viktor Orbán ha tenuto a Budapest un discorso per il primo anniversario della morte di Helmut Kohl, il grande artefice dell’unificazione tedesca, da cui iniziò la ricucitura a est dell’Europa post Guerra fredda. E’ un discorso intelligente, pieno di controintuizioni rispetto al comune pensiero europeista (Orbán non è Salvini, rassegnatevi). Grandi elogi a Kohl: “Ha rappresentato l’Europa cristiana alla quale da sempre apparteniamo, e dopo quarant’anni di comunismo la sua visione politica ha aperto la strada al nostro ritorno nella comunità dei popoli europei”. Ma il tutto con un sottile tratto volutamente revanchista, rispetto a quella stessa adesione europea: ci avete reso parte del maltolto del Trattato del Trianon. E in ogni caso, “for us Hungary comes first”. Furbizia retorica nel minimizzare il ruolo di indirizzo e di interdizione del suo paese: “Dieci milioni di abitanti, meno di ventimila soldati… qualcuno ha la tentazione di assegnarci un ruolo troppo grande”, mentre invece noi ungheresi “dobbiamo focalizzarci solo nello sforzo di difendere l’interesse nazionale ungherese”. Perché “la nostra ambizione è di vivere in una regione forte centro-europea”, quella dei paesi di Visegrád. Che non rappresentano, però, i confini dell’intera Europa.

    

Trianon è una cicatrice antica, non cauterizzata. Altrimenti non si spiegherebbe perché oggi torni a essere epos della nazione. E’ un po’ come se in Italia facessero un’opera rock sulla vittoria mutilata (forse l’hanno pure fatta, ma in qualche scantinato di CasaPound). Forse la vittoria mutilata tornerà a essere tema interessante per gli italiani, ma è dubbio: siamo un paese infinitamente più stratificato e plurale dell’Ungheria, anche dal punto di vista della lingua: siamo romanzi e indoeuropei, l’ungherese appartiene al ceppo ugro-finnico, una branca separata anche per la glottologia. Eppure sopra quel tessuto mal rattoppato di carne nazionale altre ferite sono state incise, nella storia successiva. Il nazismo e la Shoah. Il comunismo. Il 1956. L’Ungheria avrà per sempre l’orgoglio, e l’ha giocato come nobile moneta di scambio, della prima rivolta contro l’Unione sovietica. Lo spirito dell’89 le era consentaneo. L’Europa unita, anche per emendarsi delle sue ignavie, le ha tributato (e pagato) il doveroso omaggio. “L’Ungheria ha abbattuto il primo mattone del Muro di Berlino”, ha ricordato Orbán nel suo discorso, rivendicando una primogenitura nell’intuire l’interesse europeo post comunista rispetto ad altri paesi più dubbiosi e titubanti.

 

Ma è la stessa Ungheria che prima della ferita nazionale del Trianon era stata uno dei motori della Prima guerra mondiale e della dissoluzione dell’Antico equilibrio, il crollo dell’Impero (cristiano) austro-ungarico. Basta leggere François Fejtöő o Roth (Joseph), per capire il ruolo deleterio che il nazionalismo di una casta militare feudale ha avuto nella rovina di una costruzione secolare che aveva prodotto molte angherie e molte ingiustizie, e persino molti pogrom contro gli ebrei, ma non aveva scatenato due guerre mondiali nel cuore dell’Europa, né creato le condizioni per lo sterminio degli ebrei. Ora nessuno mai, sia chiaro, potrebbe anche solo pensare di mettere sul conto di Viktor Orbán, o del pensiero politico dominante oggi in Ungheria, le colpe o i disastri involontari di un passato così remoto. Sarebbe un anacronismo particolarmente stupido. Ma nell’Europa in cui riaffiorano i confini, nella Mitteleuropa in cui sotto le rotte balcaniche si avverte lo smottamento di antiche faglie, di antiche divisioni, bisogna riflettere sul peso della storia. Cosa che la costruzione retorica delle ideologie di Visegrád, che Orbán interpreta da par suo, non fa o fa in modo inappropriato.

  

I confini sono i confini, la nazione è la nazione (al netto del coté religioso) e le regole sono le regole. Accettando di entrare a far parte dell’Unione europea l’Ungheria ha anche accettato, si perdonerà la semplificazione, di aderire ai contenuti di un patto, di un foedus avrebbero detto gli antichi, che impegna “al rispettivo appoggio in vista del raggiungimento di un comune scopo politico” (enciclopedia Treccani) in cui rientrano le idee fondative dell’Europa. La difesa dei confini comuni, ma anche la loro apertura; il rifiuto dei pregiudizi di razza e religione, la libertà personale e di circolazione. Una idea condivisa di democrazia rappresentativa e di rispetto delle minoranze. Esattamente come nei requisiti della adesione all’Europa c’è – e volutamente facciamo il caso più grossolano di tutti – la cancellazione della pena di morte dalle rispettive leggi nazionali. Si può anche non condividere tutto questo, essere addirittura ostili. Ma allora, tecnicamente, decadono le condizioni di validità del patto, e ognuno per la sua strada.

  

“E’ vero che i documenti fondativi dell’Unione europea non dichiarano che uno stato membro possa provare a trasformarsi in un paese di migranti”, ha detto Orbán con arguzia, ma la sua Ungheria no. Per il suo paese, “in una tale situazione non c’è bisogno di compromessi, ma di tolleranza”. Non esiste nessun confine condiviso dell’Europa, né alcun patto di mutuo soccorso. Ma se ognuno è per sé, qual è la validità e la consistenza del patto europeo? Il leader ungherese ha detto che sarebbe facile, per lui, presentare alle prossime europee un partito dichiaratamente anti immigrazione, “ma direi che potremo resistere a questa tentazione”. Però siamo avvertiti, la storia non è un musical.

  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"