Mosul, maggio 2018. Foto LaPresse

L'Isis è stato battuto sul campo, ma il suo delirio non è finito

Adriano Sofri

La distanza tra vincere una guerra e costruire la pace. Un reportage mostra lo stato delle cose a un anno dalla liberazione di Mosul 

Domenica 10, alle 23 e 30, Rai 1 trasmetterà un reportage dal titolo “Isis: è finita?”. Il punto interrogativo del titolo è tutt’altro che retorico o cauto. Il delirio dello Stato Islamico non è finito, benché sia stato battuto sul campo, e i suoi eroi sgozzatori superstiti siano umiliati e a loro volta spesso sottoposti alla vendetta dei vincitori: si è inabissato, ha perduto la sua condizione materiale decisiva, il comando di un territorio che era diventato di colpo enorme, e la sua condizione psicologica, la ferocia spietata, primitiva e mediatica insieme, che era sembrata ipnotizzare così a lungo gli spettatori del mondo intero e gli era valso l’adesione fanatica di tanti spiantati.

  

Il reportage di Amedeo Ricucci e dei suoi collaboratori mostra lo stato delle cose, a un anno dalla liberazione di Mosul, costata forse diecimila morti e la sponda occidentale della grande città ridotta in frantumi – “Occorreranno altri due anni almeno solo per rimuovere le macerie”, dice uno di quelli che ci lavorano, con pale rudimentali e ramazze. I campi dei profughi e i campi-prigioni delle vedove e dei famigliari dei miliziani, la vita che riprende e le promesse e i fallimenti precoci della riconciliazione, dalla provincia di Ninive al Kurdistan all’Iraq a sud di Kirkuk, dove le incursioni terroriste dell’Isis sono endemiche, al Libano dei profughi. E le difese che l’Europa colpita, a partire dalla Francia, o risparmiata e comunque spaventata ha provato a mettere in opera. Ricucci ha ascoltato attori e vittime, carnefici vanitosi oggi tramutati in vittime lagnose, autorità e conoscitori impegnati, come il nostro Daniele Raineri, appena tornato anche lui a Mosul. Netti nel rivendicare la disfatta dell’Isis, benché così tarda ad arrivare, come la minaccia che dura. C’è una gran distanza fra vincere una guerra e costruire la pace, ricorda Ricucci. Infatti, e probabilmente è una distanza incolmabile nel tempo di una generazione. Al tempo stesso, se ci siamo comportati troppo a lungo come se fare e vincere la guerra non fosse affar nostro, delle persone inermi, dovremmo almeno immaginare che costruire la pace lo sia, e provare a ridurre quella distanza. Mosul e Raqqa, e Aleppo e Kirkuk, erano vicine, infatti.

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