Fiori sul luogo della strage a Istanbul (foto LaPresse)

Così la Turchia oscilla tra le repressioni di Erdogan e la sirianizzazione

Adriano Sofri

Così Erdogan, il nemico giurato di Assad e il pretendente all’egemonia del campo sunnita, si è ridotto a una recluta aggiunta alla lega russo-sciita, in cambio della autorizzazione a bombardare e tagliar fuori i curdi del Rojava siriano

Recep Tayyp Erdogan è sembrato a molti, e soprattutto a se stesso, padrone incontrastato del proprio grande paese. Ha vendicato il tentato colpo di stato svuotando giornali, tribunali, caserme, università e scuole, e riempiendo galere. Ha lastricato la sua strada presidenzialista, sultanista, sequestrando il Parlamento, abolendone le garanzie, incarcerando i deputati e gli amministratori del Hdp. Ha scatenato una guerra senza quartiere al Pkk e soprattutto alla società civile curda nel sud est e oltre i confini. Ha spinto ogni opposizione politica e ogni voce critica indipendente dentro lo spettro della cospirazione gulenista. Ha ricattato l’Europa che peraltro non vedeva l’ora di farsi ricattare pur di chiudere la strada ai fuggiaschi siriani e iracheni. Ha ribaltato di colpo le alleanze occidentali della Turchia per stringere un patto d’acciaio con Putin. Grazie a queste mosse azzardate fino alla disperazione è rientrato nel grande gioco mediorientale e centrasiatico firmando da coprotagonista la tregua siriana, dalla capitale del Kazakistan. Questo era uno dei modi di guardare la cosa. C’è un modo opposto, e non c’era bisogno della puntualissima strage di Capodanno per accorgersene.

L’intimità con Putin viene dopo uno scacco enorme: Erdogan era arrivato ai ferri cortissimi con la Russia ed era arrivato a pensare alla carta disperata del soccorso Nato, dopo l’abbattimento del mig. Per uscire dall’isolamento in cui era finito aveva rifatto la strada per Mosca da penitente, venendone benignamente accolto come la ruota di scorta di uno schieramento comandato da Putin e costituito come una vera Internazionale politica e militare sciita a presidio dell’alauita Bashar al Assad: l’Iran e i suoi Guardiani della Rivoluzione, gli Hezbollah libanesi e anche i reparti delle (non più) paramilitari truppe sciite irachene.

Così Erdogan, il nemico giurato di Assad e il pretendente all’egemonia del campo sunnita, che a questa ambizione aveva prestato la complicità con l’avanzata dell’Isis, si è ridotto agli occhi del mondo sunnita di Aleppo e di Idlib, e della propria interna maggioranza sunnita, come una recluta aggiunta alla lega russo-sciita, in cambio della autorizzazione a bombardare e tagliar fuori i curdi del Rojava siriano. I cui confratelli, curdi di Turchia, avevano in larga parte creduto alla necessità di una conciliazione con il governo e con l’Akp e osservato una lunga tregua delle armi, nel corso della quale molti fattori decisivi della partita si erano modificati in modo promettente. Intanto, il loro profeta, “Apo” Ocalan, dall’ergastolo in cui è isolato, aveva elaborato una sua conversione ideologica che, in nome di una miscela inevitabilmente scolastica ma sincera di ecologismo, femminismo e democrazia di base, ripudiato il programma della secessione e dell’indipendenza statale in cambio di un “confederalismo democratico” e fatto appello alla rinuncia alla lotta armata. Questa conversione si era tradotta in una rappresentanza importante come l’Hdp, il Partito democratico dei popoli, capace di entrare in Parlamento, diventandone il terzo partito, e di egemonizzare le speranze dei curdi di Turchia e di altre minoranze.

Erdogan ha visto in questa circostanza non una grande occasione ma una minaccia al suo personale sogno dispotico di farsi sultano di una Turchia neo-ottomana e insieme islamista, e ha voluto rovesciare il tavolo in cerca di rivalsa nelle elezioni anticipate, trovando un atteggiamento corrispondente nei veterani clandestini del Pkk, riluttanti alla scelta parlamentare del Hdp per dogmatismo e per gelosia di potere. La Turchia di oggi è il risultato di questo groviglio di scelte, ed è un campo corso da tante guerre. Compresa la guerra di un terrorismo islamista che non è l’importazione dell’Isis ma si nutre della rabbia interna contro il “tradimento" di Erdogan.

Che cosa vada preparando a se stessa la Turchia di Erdogan è ora impossibile prevedere. Si è spinta troppo oltre per riprendere il filo della conciliazione coi suoi curdi nella prospettiva del riconoscimento di un’autonomia federale e di una apertura culturale, che tuttavia sarebbe ancora il primo bandolo dal quale ricominciare la risalita dalla violenza senza tregua. Avrebbe dovuto essere anche l’impegno principale dell’Unione Europea nei confronti di Erdogan, quando era il momento, e quando invece la signora Merkel andò rovinosamente a rendere visita a Erdogan alla vigilia delle elezioni anticipate preparate dalla repressione e dal terrore. Ora, se nessuna intelligenza diversa saprà farsi viva, la Turchia oscilla fra un Erdogan risoluto a durare al costo di una repressione sempre più feroce e arbitraria, e un destino “siriano” di bande armate e burattinai esterni. Destino cui sono legate a doppio filo Europa e Nato.