Ready Player One

La recensione del film di Steven Spielberg, con Olivia Cooke, Tye Sheridan, Mark Rylance, Simon Pegg (Netflix)

Mariarosa Mancuso

Ricordate un videogioco Atari chiamato “Adventure”? Noi no, ma sappiamo riconoscere una madeleine quando ne vediamo una. Quando poi i biscottini evocatori di ricordi si contano a centinaia, l’effetto dà le vertigini. Non ditelo agli ex ragazzi degli anni 80 che si sdilinquiscono davanti alla serie “Stranger Things”, potrebbero uscirne sconvolti. C’è più incanto e più originalità – e soprattutto più divertimento – in un quarto d’ora di “Ready Player One” che nelle tre stagioni della serie. L’anno è il 2045, in un postaccio detto Le Cataste: roulotte su ponteggi, e per il resto miseria. Grande è la tentazione di inforcare il visore e fuggire su Oasis, gioco di realtà virtuale dove puoi essere chi vuoi e incontrare chiunque. Per esempio, puoi ballare alla maniera di John Travolta in una discoteca senza gravità. Puoi correre una gara automobilistica con la DeLorean di “Ritorno al futuro”, sapendo però che prima del traguardo a Central Park ti sbarreranno la strada King Kong e il T-Rex di “Jurassic Park”. Accettata la premessa, senza la quale “Ready Player One” è solo rumore e furia, o se preferite “una favola raccontata da un’idiota,” arriva il McGuffin – direbbe Hitchcock: quel che serve per portare avanti la trama. L’inventore di Oasis – l’attore Mark Rylance in modalità super-nerd – è morto lasciando il suo impero e la sua enorme fortuna a chi troverà l’Easter Egg nascosto nel gioco (dicesi Easter Egg una sorpresa che si rivela solo ai giocatori più che abili, purché sappiano pensare fuori dagli schemi). Pronti e via, il film è tutto un luna park di citazioni, giacché bisogna esaminare quel che il creatore del gioco aveva in testa. Pop culture, videogiochi e cinema: nessuno aveva mai trattato così Stanley Kubrick e il suo “Shining”. Tocco di classe, gli avatar scelti dai giocatori: la ragazzina con la voglia di fragola in faccia la trasforma in vezzose lentiggini.

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