(foto Ansa)

Una maratona di immagini per riscoprire il Dottor G, a vent'anni dalla morte

Stefano Pistolini

È un'idea della Fondazione Giorgo Gaber, per far conoscere ai più giovani l'opera e la possibilità di una comunicazione del genere di quella che l'artista milanese rese un formato, e poi lasciò dissolvere

L’idea di fondo dell’iniziativa, promossa dalla Fondazione Giorgio Gaber nel ventennale della morte dell’artista, è necessaria e venata di sano ottimismo: “Avvicinare i ragazzi a Gaber, creare le condizioni affinché le nuove generazioni abbiano l’opportunità di conoscerlo. Ventiquattro ore consecutive, sul sito della Fondazione e sul suo canale YouTube: una maratona di immagini realizzate con la collaborazione della Rai e della Rsi, oltre a materiale inedito delle tournée teatrali. Per proporre ai giovani un confronto col suo repertorio”, dice Paolo Dal Bon, il presidente della Fondazione. Per chi non c’era, e ormai sono la maggioranza, un’occasione per osservare, concepire e assumere almeno un po’ della figura artistica di Gaber. Operazione tutt’altro che scontata e nemmeno facile: la distanza che ci separa, emotivamente, psicologicamente, nelle abitudini di vita e nei consumi culturali, dall’Italia in cui il Signor G metteva in scena i suoi spettacoli, sta diventando incolmabile. E diventa complicato convogliare e sedurre un pubblico che non ne ha mai sentito parlare, o lo ha istintivamente archiviato in uno sbiadito passato familiare, pertinente a un mondo diverso.

 

E’ complesso fargli percepire la possibilità di una comunicazione – non solo artistica, ma anche individuale e provocatoria – del genere di quella che Gaber, in perenne collaborazione con Sergio Luporini, rese un formato, portò alla perfezione e alla fine in un certo senso lasciò dissolvere, dichiarando implicitamente conclusa l’esperienza. Per fortuna, in primo soccorso di chi voglia interessarsi a questa ricostruzione, arriva l’estrema visualità, quasi cinematografica, della biografia di Gaber: gli inizi nelle frange moderniste e irregolari della musica italiana, a cavallo tra Cinquanta e Sessanta, nella brigata di talenti che includeva Enzo Jannacci, Luigi Tenco e subito nei dintorni Dario Fo, Adriano Celentano e tanti altri. Poi il successo, un successo grosso, i Sanremo dell’età d’oro, tanta televisione, la metamorfosi in un personaggio mainstream, simpatico, piacevole, buffo, sottilmente ironico, ma apparentemente inoffensivo. Poveri illusi: ecco che Gaber si modifica ancora, si trasforma nel più inatteso grillo parlante della normalità italiana, diventa una bomba a orologeria, piazzata sotto la sedia della nostra borghesia che in quegli anni frequenta i gangli vivi della cultura, a cominciare dal Piccolo Teatro, che diventa la sua officina di formazione.

Nasce il Teatro-Canzone – questo, per esempio, sarebbe bello che arrivasse a un pubblico che ne è inconsapevole, che non ha mai concepito l’eventualità di un intrattenimento pensante di questo genere – e Gaber, indossando i suoi anonimi completi impiegatizi e la cravatta d’ordinanza, diventa lo sfidante dei luoghi comuni, il corrosivo smantellatore di svariate certezze e di schieramenti assodati solo in apparenza. Si presenta su palchi invariabilmente spogli, portandosi dietro una vera band, nemmeno fosse un cantautore elettrico come quelli che all’epoca cominciano a spopolare (si sono fatti ormai i Settanta), ma fa tutta un’altra cosa, che si può etichettare come “spettacolo”, ma che in effetti si colloca in un punto indefinito tra la raffica predicatoria, l’esperimento di autocoscienza, il cabaret, la seduta psicanalitica di gruppo e – soprattutto, si direbbe – il solitario ragionamento a voce alta, messo a punto, reso ritmico e poetico il giusto, e quindi esposto. Lui gorgheggia “Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona / qualcuno era comunista perché Andreotti non era una brava persona” con sorrisi e mossette, con le smorfie, il ghigno dell’intrattenitore di piazza, il pubblico ride, si scambia sguardi complici, ammicca, è roba che si porta a casa e si rivende in ufficio il giorno dopo. I suoi sono gli argomenti che galleggiano tra conscio e inconscio di tanti italiani di quegli anni: l’appartenenza, l’ideologia, il conformismo, la sincerità, la disillusione, le utopie e le opportunità mancate, le miserie – in particolare quelle – di cui non ci dovremmo mai dimenticare: “Io, da quando mi ricordo, sono sempre stato democratico, non per scelta, per nascita. Come uno che quando nasce è cattolico, apostolico, romano. Cattolico pazienza, apostolico non so cosa vuol dire, ma romano, io?!...”.

Si fa le domande e si dà le risposte, dialoghi a copione e a tesi, su cui edifica la propria esibizione, su in alto, giù in basso, perfino cantando un motivetto su una puzza che lo perseguita (“vuoi vedere che sono io?”). La canzone diventa ragionamento, diventa specchio, con zone deformanti, ovviamente. Prodigio della parola fendente e intelligente, luogo della satira. Mica poco. Prendersi in giro, su ritmo andante un po’ sambato, fingere di afferrare, ma soprattutto ammettere delle cose. Ebbene, non si sa come, o sarebbe lungo ricostruirlo, di questo, come di molto altro, non sono rimaste molte tracce. Se non dei dischi e dei filmati un po’ slavati. Che consigliamo di osservare con attenzione. Almeno per alcuni, ci potrebbero essere delle agnizioni in vista. Gli altri, come diceva quello di Liverpool, potranno limitarsi ad applaudire (e i più ricchi far tintinnare i loro gioielli).

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