Foto di Mohamed Messara, via Ansa 

stupor mundi

La “Messa in do minore” di Mozart, che celebra come nessun'altra la meraviglia della natività

Stefano Picciano

I puristi della sobrietà liturgica la osteggiavano per i suoi grandi assolo. Sette minuti di "Et homo factus est". E un'opera incompleta che si aggiunge ad altri incompiuti vertici dell'arte

Si racconta che, mentre era immerso nella stesura della celebre Messa in si minore, Johann Sebastian Bach sia tornato una seconda volta sul manoscritto per aggiungervi una pagina – composta a parte, come testimonia la diversa carta utilizzata – dedicata unicamente alla breve sezione in cui il testo pronuncia le parole Et incarnatus est. Miniatura di rara e immediata intensità, la breve pagina veniva così a sostituire la versione precedente nel semplice gesto di un foglio inserito al punto giusto del manoscritto: il compositore, con questa modifica tesa a isolare quella sezione del testo, mostrava la volontà che il passaggio più delicato e importante – quello incentrato sulle tre parole che racchiudono il nucleo della fede cristiana – trovasse un’adeguata valorizzazione musicale.

 

Dai tempi remoti della liturgia medievale fino alle grandi opere sacre degli ultimi secoli, è significativo osservare in che modo i compositori hanno tradotto in musica la scena della Natività. Non si trattava, al principio, di una melodia da affiancare a un testo, bensì di una parola che – inoltrandosi nella dimensione del sacro – deve innalzarsi divenendo canto, e in quella dimensione contemplativa va individuato il senso dei melismi, delle cadenze, delle specifiche terminazioni melodiche che si trovavano sulle parole centrali della fede. Et incarnatus est: è lo stupore di Maria e la meraviglia dei pastori, è la solennità dinnanzi al cuore della fede, con la musica che pare assumersi il compito di dipingere, scolpire, favorire l’immedesimazione del singolo quasi facendolo partecipare agli eventi della narrazione evangelica. Fin dall’antichità su quelle parole il canto sacro latino usava soffermarsi con adeguata lentezza per favorire la contemplazione, in una sorta di sospensione del tempo, invitando lo sguardo e la coscienza degli ascoltatori a soffermarsi sul quel preciso istante.

 

Non è materia per addetti ai lavori, né è necessario avere particolari competenze musicali. Chi provasse a osservare la parabola di questo frammento di testo nel corso della storia della musica troverebbe un affascinante viaggio davanti a sé: dalla meravigliosa declinazione che ne offre Palestrina nella Missa Papae Marcelli, alla maestosa solennità che, su queste parole, irrompe nella Missa In illo tempore di Monteverdi; dalla palpitante intensità della Missa Solemnis di Beethoven, fino a Bruckner che, nell’adagio della Messa in mi minore, fa tacere d’un tratto l’orchestra per affidare alle sole voci del coro un canto dalle sembianze angeliche. E poi, naturalmente, Mozart. 

 

Già nelle prime tra le diciotto messe che avrebbe composto emerge nel genio di Salisburgo una straordinaria capacità di scolpire, attraverso la musica, i contenuti del testo, talora dilatando l’istante dell’annuncio per farlo per così dire uscire dal tempo. Ciò non avviene ancora compiutamente nella Messa K257 (Credo-Messe), composta nel novembre del 1776 per la cattedrale della sua città: in questo caso la commissione richiede brevità, concisione, non c’è il tempo di prolungare la scrittura, che – secondo i dettami del vescovo – deve rispettare i tempi della liturgia evitando di tramutarsi in concerto. Poche settimane prima, inviando a Bologna un Misericordias Domini (K222), il giovane Mozart, cimentandosi con la nostra lingua, aveva scritto a Padre Martini: “Ci vuole uno studio particolare per questa sorte di compositione, e che deve però essere una Messa con tutti stromenti – trombe di guerra, tympani, etc… Ah, che siamo sì lontani carissimo Padre Maestro, quante cose che avrei à dirgli!”.

 

L’annuncio dell’Et incarnatus viene in questa pagina delineato con pochi sicuri tratti dal compositore ventenne che ordina al coro – dopo una energica, sfrenata corsa nella prima parte del Credo – di arrestarsi bruscamente sulla soglia delle parole descendit de coelis: un istante di silenzio, un momento apparentemente vuoto tra le note (ma “la musica più profonda è quella che si nasconde tra le note”, avrebbe detto Mozart nella maturità) dopo il quale inizia la melodia nuova, inaspettata dell’Et incarnatus est. 

 

Con una chiarezza che lascia esterrefatti Mozart delinea immagini d’icastica pregnanza o persino contenuti teologici che attraverso le note vengono declinati, tradotti, spiegati: qualcosa di analogo accade nel 1779, al ritorno da un lungo viaggio attraverso l’Europa, quando egli compone la Messa K317 (detta “dell’Incoronazione”): nel Credo, qui una marcia trionfale, una manifestazione di certezza, il coro procede in modo omogeneo fino alle parole descendit de coelis, rese proprio attraverso una successione di scale discendenti. Poi d’improvviso tutto si ferma: il coro tace, e le parole Et incarnatus est sono un canto dolcissimo affidato a soprano e contralto, quasi una nenia a due voci che pare rivolgersi a un neonato, in un passo liturgico in cui pare che la musica stessa debba farsi silenzio.

 

Tanto grande è la tenerezza di questo momento quanto drammatico appare, in un repentino, cruento e quasi cinematografico stacco tra l’immagine del neonato e l’annuncio della condanna, il lancinante intervento del coro che con la parola crucifixus viene a infrangere quel clima. La narrazione dei fatti evangelici è tracciata in modo altissimo con poche pennellate musicali, dal candore alla tenebra, dal dolore alla luce: le parole et sepultus est, all’atto di annunciare una disfatta definitiva (peraltro pronunciate in modo enfaticamente frammentario) proprio sull’ultima sillaba – non subito dopo, ma in coincidenza con essa – vengono a combaciare con l’inizio della frase Et resurrexit, in modo che sul pentagramma la morte e la risurrezione risultano coincidere.

 

Una graduale allontanamento dalle prerogative di brevità e concisione pare affacciarsi nell’ultimo brano della Messa dell’Incoronazione: in questo Agnus Dei Mozart crea infatti una melodia assai somigliante a quella che avrebbe utilizzato, alcuni anni più tardi, nelle Nozze di Figaro, nella famosissima aria della contessa (“Dove sono i bei momenti”) che mestamente piange l’indifferenza del marito: melodia che diviene emblema della familiarità di un rapporto, così che d’improvviso l’assoluto non è più qualcosa che sta al di là di tutto, ma una presenza a cui rivolgersi in modo diretto, persino permettendosi la spazientita insistenza che emerge sulle parole “qui tollis peccata, miserere nobis”, sulle quali il soprano, con ostinazione tipicamente femminile, torna più volte a ripetere una richiesta (miserere) per la quale sembra esigere una risposta immediata.

 

Ecco allora che l’invocazione Kyrie che apriva la composizione con un grido a un interlocutore lontano si risolve sul finire della partitura nella voce di una donna che con familiarità parla a qualcuno che ella vede, ora, davanti a sé. E non è l’unica occasione in cui Mozart riutilizza frammenti già scritti se, analogamente, la melodia dell’Agnus Dei della Messa K337 – l’ultima portata a termine dall’autore – avrebbe offerto lo spunto melodico, sempre nella partitura delle Nozze, a un’altra aria della addolorata contessa, là dove ella, affranta, implora la sorte (“Porgi, amor, qualche ristoro, al mio duolo, a’ miei sospir!”) affinché le amarezze della sua condizione possano trovare conforto.

 

Sacro e profano si fondono in una suprema sintesi che conduce ogni obiezione, di fronte a tanta bellezza, alla resa; Mozart sembra incapace di concepire una musica sacra che si innalzi, allontanandosene, al di sopra delle passioni umane: esattamente come nell’annuncio della Natività, il sacro perde i connotati del “totalmente altro” per immischiarsi nelle vicende dell’uomo.

 

E nulla, in proposito, ci appare più significativo e degno di nota di ciò che accade nella famosissima Messa K427 in do minore, la cui composizione fu intrapresa da Mozart come un’offerta votiva in occasione dell’imminente matrimonio. Opera tra le più straordinarie dell’autore, che – giunta al Credo – lascia l’ascoltatore interdetto quando il soprano, emergendo tra la vastità di orchestra e coro, inizia il canto dell’Et incarnatus est. È questa la sezione che, nelle sue sembianze operistiche, ha fatto a più riprese infervorare i puristi della musica sacra intenti ad additarne il carattere poco ecclesiastico (“Ma – commentò il critico Alfred Einstein – se la Chiesa dovesse rifiutare un pezzo come questo, dovrebbe respingere anche i tondi di Botticelli, ugualmente profani”), denunciato peraltro già dalla stampa dell’epoca: “Le messe di Mozart contengono cose eccellenti: ma non est hic locus”.

 

Ma Benedetto XVI, parlando proprio di quest’opera, ha osservato: “Da un punto di vista strettamente liturgico si potrebbe obiettare che questi grandi assolo si allontanano un po’ dalla sobrietà della Liturgia romana; ma per contro si può anche chiedere se non sentiamo in essi la voce della sposa, della Chiesa (…) che fa risuonare in essi la sua gioia di essere amata”. Mozart fa dunque intonare al soprano solo il breve testo per intero (“Et incarnatus est de spiritu sancto ex Maria Virgine et homo factus est”) e, a quel punto, per i lunghissimi sette minuti seguenti, fa sì che ella si soffermi in un dolcissimo, reiterato, interminabile vocalizzo, teneramente accompagnata da flauto, oboe e fagotto, unicamente sulle ultime quattro parole. Quasi a voler rappresentare lo stupore incredulo per un evento di inimmaginabile portata, il cui annuncio convoglia tutte le energie dell’organico orchestrale divenendo il baricentro dell’intera partitura, i sette minuti in cui ella ripete “Et homo factus est” – mentre alcuni nuclei dell’orchestra la accompagnano con discreti interventi e molti altri la ascoltano in silenzio – non appaiono appena come un’intrusione dell’espressività lirica nel canto sacro; appaiono, piuttosto, simili gli occhi degli angeli, chini sulla mangiatoia, dipinti da Van Honthorst, come l’intimo silenzio del San Giuseppe di Guido Reni, come la sospensione attonita dello sguardo dei pastori di Caravaggio nella Natività di Messina.

 

Tanto più che la composizione del Credo termina qui; Mozart non vi aggiunse altra nota (e manca totalmente il successivo Agnus Dei) lasciandolo incompleto: l’opera, intrapresa dall’autore di propria iniziativa e dunque al di fuori di qualsiasi commissione, venne accantonata e rimase per sempre nella forma di meraviglioso abbozzo, ammantandosi di quel fascino che avvolge altri incompiuti vertici dell’arte come la michelangiolesca Pietà Rondanini, come la Sagrada Familia di Gaudí, come il successivo Requiem dello stesso autore.

 

Riposta questa partitura – escluso il citato Requiem, anch’esso peraltro incompiuto – Mozart non scrisse più alcuna messa. Possibile – come qualcuno ha ipotizzato – che l’autore, in questo impervio crocevia tra tradizione liturgica e stile classico, si fosse avveduto di aver osato troppo, d’essersi spinto troppo al di là delle norme previste per la musica ecclesiastica? “La ragione per cui questa Messa resta un torso incompleto – osserva Piero Buscaroli – è stranamente elusa dalla critica mozartiana” e Wolfgang Hildesheimer sottolinea: “Fino ad oggi nessuno è riuscito a spiegare perché Mozart non abbia finito la Messa in do minore”. Quale che sia la motivazione per cui egli lasciò in bianco i successivi pentagrammi, davanti ai nostri occhi rimane, nel suo incancellabile fascino, un’immagine: l’idea che, dopo l’Et incarnatus, l’autore stesso avesse intuito che nulla altro vi era da dire, nulla da aggiungere – quasi l’idea di descrivere quell’istante come una sorta di parola definitiva sulla vita dell’uomo e sulla storia – a questa misteriosa partitura che rimane, nella sua meravigliosa incompiutezza, tra le opere più alte della musica.

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