Gianni Morandi a Sanremo (LaPresse)

Il foglio del weekend

L'età della gioia. I sogni, le speranze e l'ottimismo vitale di Gianni Morandi

Francesco Palmieri

Canta come se avesse ancora diciassette anni, ma la sua non è solo un’esplosione d’energia. “Quei ragazzi nuovi che cantano lo fanno sempre con un velo di malinconia”

Come lo vide allora Alberto Arbasino, così l’avete visto poco tempo fa a Sanremo: “d’una vitalità giustamente continua”. “Occhi color lucertola, vivissimi. E quel torrente di voce emiliana che accarezza l’intera Italia e la fa rabbrividire nelle sere d’estate”. Persino il suo nome allo scrittore sembrava il più azzeccato perché “in Italia non esiste che un altro Gianni, ed è l’avvocato Agnelli; e il solo altro Morandi, è un pittore altrettanto celebre”.

 

Ipse dixit: perché dopo oltre mezzo secolo l’affermazione luccica ricolorata. Ventidue anni Morandi aveva allora, settantasette ne ha compiuti l’11 dicembre, ma più della lunghissima carriera fa notizia quella “vitalità giustamente continua” con cui cantava diciottenne ‘Andavo a cento all’ora’ e per cui neanche oggi ha rallentato. Il duetto con Lorenzo Jovanotti, un Dostoevskij allegro, nella serata delle cover all’Ariston è stato una performance di energia che ha ceduto ad artisti tre volte più giovani l’appalto di tristezze e di tonalità in minore. Lui sminuisce: “Ha fatto effetto la vitalità di un ultrasettantenne”. E scherza ripetendo (sempre “un po’ in romanesco”, come notò Arbasino) la battuta di Fiorello: “Avranno pensato: ‘Anvedi questo, sembra un ragazzino!’ Ma fra l’eterno ragazzo e l’eterno riposo è un attimo…”.

 

Ha trasudato emozione la prima sera del ritorno da concorrente al Festival ventidue anni dopo, come un Roberto Baggio sul dischetto del Mondiale ’94. Perché certi vecchi campioni, artisti, pugili o toreri fremono malgrado l’esperienza, sapendo che il bel gioco presume oltre al mestiere un pound di sentimento. Però Gianni Morandi il calcio di rigore lo ha mandato in rete con l’unico brano del Festival che non sembrasse scritto da qualcuno traslocato sulla Luna negli ultimi due anni: Jovanotti ha messo giù per lui “Apri tutte le porte” dopo i lockdown, le zone rosse e gialle, i collegamenti Zoom dai sofà, le felpe di casa, la semireclusione degli affetti, l’incertezza del futuro e la tentazione di prolungare un anomalo presente perché “l’abitudine è una brutta bestia / un parassita che lentamente infesta / tutto quanto fino a prendere il potere / e non riesci più a reagire”.

 

“L’emozione c’era”, racconta Morandi, “perché quando canti per la prima volta un brano davanti a un pubblico di milioni di persone non sai mai come sarà accolto, anche se ‘Apri tutte le porte’ mi stava bene addosso dal principio. Poi pian piano mi sono sentito più convinto e più cantavo più mi piaceva, finché nella quarta serata assieme a Jovanotti s’è realizzata una botta di entusiasmo pazzesca, non solo per me ma per tutti. La vitalità esplode quando ti trovi con una grande orchestra e una canzone così bella. Ci sono colleghi che preferiscono lo studio di registrazione e altri che a una certa età si sono ritirati o quasi, come Ivano Fossati, Adriano Celentano. Per me invece l’aspetto migliore è il contatto col pubblico, quando sei in un teatro con mille persone e il concerto sta per cominciare”.

 

Morandi ha intonato “fai entrare il sole” come lo avrebbe intonato a diciassette anni; ha cantato “gioca tutte le carte” subito dopo la rielezione al Quirinale del poco più che coetaneo Mattarella poiché alla politica mancavano alternative meno mature; ha esortato a “fare qualcosa” come esortò a farsi mandare dalla mamma a prendere il latte mentre correva “in ginocchio da te”, quando ci s’inginocchiava o in chiesa o per amore e non nei parlamenti e sui campi da gioco per il ‘black lives matter’; ha invitato a bruciare “tutte le scorte”, mentre Zerocalcare alla metà dei suoi anni rimugina con riconosciuto acume su dilemmi esistenziali che la medicina galenica associava alla melanconia saturnina, di facies nigra per eccesso atrabiliare.

 

L’età media della gioia si è impennata? Tra Mahmood-Blanco e Jovanotti-Morandi sembra abbia spiccato un salto in alto. “I ragazzi adesso sono molto più concentrati su una riflessione del futuro, mentre noi avevamo un ottimismo da cui prorompeva la voglia di fare. Era diverso l’umore generale”, considera Morandi. “Allora eravamo tutti più brillanti: gli anni Sessanta furono un momento culmine per la musica, il cinema, la letteratura italiana. C’era una società che sperava, che conquistava il primo frigorifero e s’incolonnava per andare al mare. Come altri colleghi, sono stato l’espressione di quel periodo storico”. Che non fu solo euforia e musicarelli o zuccheroso vitalismo: “Quando ascoltai il brano di un cantautore di Siena, Mauro Lusini, con le parole riscritte da Franco Migliacci, me n’innamorai e insistetti a tutti i costi per cantarlo: ‘C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones’. Me lo sconsigliavano tutti perché denunciare la guerra in Vietnam era fuori del mio personaggio. Però mi intestardii. Fu l’ultima canzone di cui Ennio Morricone curò l’arrangiamento e per il mio pubblico rappresentò uno scossone. Spesi fatica a imporla: la Rai non la trasmetteva e le radio mandavano solo il lato b del 45 giri. Fu persino presentata un’interrogazione parlamentare perché avevo cantato contro l’alleato americano. Però ‘C’era un ragazzo’ crebbe nel tempo anticipando il ‘68. Piacque pure a Joan Baez che volle interpretarla”.
Forse non è vero per tutti, come recita una poesia di William Butler Yeats, che “men improve with the years”.

 

E forse non è vero che anche gli insuccessi siano esperienze fruttuose né che tutti possano dire “io divento vecchio in mezzo ai sogni”. Nemmeno è sempre vero, come cantava Jovanotti in “Quando sarò vecchio”, che “quelli che ora è il loro turno” “mi rispetteranno come si rispetta il tempo / che separa lo studio dall’esame”. Però nel caso di Morandi sembra proprio così: che gli insuccessi non gli abbiano rubato i sogni e che chi è arrivato dopo lo abbia sempre rispettato. Perché? “Perché partivo da un paesino che si chiama Monghidoro, figlio di un calzolaio, con la quinta elementare, perciò tutto quanto mi capitava era una festa inaspettata. Mio padre dopo ogni disco diceva: ‘Adesso torna a casa, che devi lavorare’. Per lui ogni disco sarebbe stato l’ultimo. All’epoca neanche ci telefonavamo, mi spediva le lettere all’albergo dove alloggiavo a Roma. Una volta gli sembrò così strano che fosse venuta una ragazza a cercarmi per l’autografo che me lo scrisse”.

 

Quali uomini migliorano con gli anni? “Con gli anni si capiscono tante cose ma si può anche peggiorare se uno ha un’indole sbagliata, cattiva, mentre se vieni da una buona base, se hai una positività interiore e sei propenso più verso gli altri che contro allora sì, migliori. Col tempo sono diventato più tranquillo, ma mi restano sempre la curiosità e la voglia di fare. Quando cominciai ero un dilettante allo sbaraglio con i calzoni corti, però fui fortunato: alla Rca trovai gente come Morricone, Bacalov, Migliacci, Zambrini. Avevo desiderio di imparare e ancora non ho smesso”.

 

Nemmeno quando, negli anni Settanta, visse l’oscuramento artistico di chi è considerato fuori tempo, troppo vicino per essere un classico e già lontano per assimilare nuovi stili. S’iscrisse allora al Conservatorio di Santa Cecilia per studiare contrabbasso e sospettò che il padre avesse ragione: presto o poi certe cose finiscono. Accadde invece una magia grazie al gioco del calcio, che ricorre importante nella biografia di Morandi (la presidenza onoraria del Bologna e prima ancora l’amicizia con Lucio Dalla, che durerà tutta la vita e nacque allo stadio nel ’64, quando i rossoblu di Janich, Nielsen e Bulgarelli vinsero lo scudetto e Gianni il Cantagiro). “Conobbi Mogol, che aveva appena concluso la collaborazione con Battisti. Non parlammo di musica ma solo di pallone, perché mi chiese di aiutarlo nella formazione della Nazionale cantanti. Contattai Fogli, Tozzi, Pupo, Mengoli, Mingardi, finché un giorno mi disse: ‘Ma tu non canti più?’. Risposi che studiavo. E lui: ‘Se non canti non puoi stare nella squadra’. Replicai precisamente così: ‘Canto solamente insieme a pochi amici quando ci troviamo a casa e abbiam bevuto…’. Mogol partì da questa frase e scrisse il testo che avrebbe musicato Aldo Donati. Cominciò da ‘Canzoni stonate’ il mio rilancio negli anni Ottanta, dopo che nessuno mi voleva nemmeno a Discoring né ci speravo più: è difficile che un artista recuperi il suo pubblico quando per tanto tempo sparisce. Perciò ‘Canzoni stonate’ è il brano con cui apro i concerti, anche quelli che sto tenendo adesso al Duse di Bologna”.

 

E nel teatro non manca mai di portare due o tre brani di Dalla, con cui intrecciò le sorti artistiche sull’altalena del mercato discografico, le cementò nell’88 con una tournée di successo e con un disco che avrebbe superato il milione di copie, ricco di 15 tracce fra cui una, “Che cosa resterà di me”, composta da Battiato per Morandi (“avevo parlato con Franco del mio percorso di ricerca spirituale, cominciato tra l’85 e l’86 e che per me fu la svolta, io ‘figlio di un pensiero rosso e partigiano / di recente ho qualche fremito diverso sul creato’”). Un sigillo triste arrivò quando Gianni, come conduttore del Festival 2012, invitò il riluttante Lucio a Sanremo e fu questa l’ultima apparizione televisiva dell’amico conosciuto allo stadio, che gli aveva allargato per decenni l’orizzonte dei sentimenti e della musica: “Ricordo quando mi regalò un disco di Ray Charles dicendo: ‘Senti questo, ché mica esistono solo l’Italia e Claudio Villa!’”. Apri tutte le porte.

 

La fortuna si mostra più benigna con chi non cerca di scipparle la benda, sicché Morandi dei musicarelli riapparve sui piccoli schermi per una generazione successiva di fan grazie al regista Pier Giuseppe Murgia, che aveva insistito nel volerlo protagonista dello sceneggiato Rai ‘Voglia di volare’, cui seguì la miniserie ‘Voglia di cantare’, preludio entrambi della vittoria al Sanremo ’87. Assieme a Tozzi e Ruggeri con ‘Si può dare di più’. Poi la lunghissima strada fin qui, mentre le porte si sono aperte tutte senza forzarle mai. “Una sera sto vedendo ‘Parasite’ al cinema Rialto di Bologna, quando in una scena clou sento partire ‘In ginocchio da te’. A momenti mi prende un colpo, mentre gli spettatori seduti vicino si girano a guardarmi...”. Merito di un 33 giri con dodici canzoni italiane che il papà faceva ascoltare al regista coreano Bong Joon-ho, premiato con quattro Oscar per quel film. “E’ venuto a presiedere la giuria dell’ultimo Festival di Venezia e quando i giornalisti gli hanno detto che ero ancora vivo ha voluto conoscermi. Ci siamo incontrati e s’è inginocchiato lui”.

 

L’età media della gioia segue quella di Morandi, che pure è convinto di non avere fatto storia nella musica leggera: “Sono altri che l’hanno fatta davvero. E’ Domenico Modugno quando intona ‘Volare’, è Lucio Battisti che rivoluziona la canzone italiana, è Fabrizio De André. Io sono solo un testimone che ha attraversato gli anni come Forrest Gump, c’ero ai tempi di Andreotti come adesso, ho assistito ai cambiamenti del costume e della società”. C’era e c’è ancora perché, prima di “aprire tutte le porte”, ha lasciato aperte le finestre ai miracoli che possono accadere quando capisci che non si devono pretendere. “Mia madre me la cantava sempre”, dice Gianni parafrasando Forrest. “Cantava ‘Aprite le finestre al nuovo sole, / è primavera, è primavera’, che fu il successo con cui Franca Raimondi vinse il Sanremo del ’56”. Poi cominciò a cantare lui e da lì tutto è un attimo lunghissimo che ha superato i sessant’anni di carriera tra giorni d’oro e giorni neri.

 

Chissà cosa direbbe oggi Morandi, se come in quel racconto di Borges incontrasse sé stesso adolescente su una panchina davanti al fiume. Cosa consiglierebbe Gianni a Gianni? “Ricordo che non sognavo tanto di diventare cantante, quanto di viaggiare per conoscere il mondo al di là di Monghidoro. Avrei voluto imparare un sacco di cose ma per prima vedere Bologna e Firenze. Se incontrassi me stesso come fosse un altro gli domanderei della sua voglia di vivere, di dove vuol andare… Però consigli no, non saprei darne: mi sono sempre mosso con l’istinto per le cose in cui ho creduto anche contro il parere degli altri. Perciò da lui vorrei soltanto una conferma di quella mia vitalità di allora, mi piacerebbe risentire come si abbandonava ai sogni, alle speranze, all’ottimismo che adesso tra chi è così giovane vedo tanto diminuito. Questi ragazzi nuovi che cantano lo fanno sempre con un velo di malinconia. Una totale esplosione di gioia non si rivede più”.

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