Come si muove e cosa cerca un segugio di autori di canzoni. La versione di "Klaus" Bonoldi

Maurizio Baruffaldi

Dall'underground ad Amici. Da più di 20 anni scova, assimila e gestisce gli autori della Universal. E segue i laboratori e i finalisti di ‘Genova per noi’, rinomato talent senza tv che ha lanciato gli autori di 6 dei 24 tormentoni di Sanremo

Guardo il faccione sereno e minaccioso di Marracash sul manifesto all’ingresso e mi infilo nel lungo corridoio verde pisello psichedelico della Universal Musica Publishing Italia, società editoriale di Universal Music. In total black da vecchio rocker, Claudio Klaus Bonoldi mi accoglie nel suo ufficio stanzetta, casino a misura d’uomo. In qualità di A&R Director, da quasi 25 anni Klaus, (“mi hanno chiamato così da ragazzo in poi”) scova, assimila, segue e gestisce gli autori della Universal, oltre a guidare una catena di montaggio che sforna canzoni.

  

Partiamo larghissimi: come sta il mercato discografico?

“È stato rivitalizzato da Spotify. Perché la tecnologia succede, spezza il vecchio ordine del mercato del fisico e cambia l’universo. Porta alla luce l’enorme ascolto illegale che c’era in rete ed esplode anche la scena italiana. Poi ovvio, ci sono le giuste polemiche sul valore economico del singolo stream, la divisione dei proventi, e il sistema discutibile di playlist, con linee editoriali che possono privilegiare generi su altri… Ma tutto è in evoluzione. Resta che un ragazzino di 15 anni ascolta in modo più compulsivo di uno di 40. Nel consumo a stream, non hai più quello one to one del fisico: inevitabile lo strapotere nelle classifiche degli artisti preferiti dai giovanissimi.” Klaus pronuncia fisico col tono che si dedica all’estinto. “E i media tradizionali non possono più permettersi di ignorarli. Spotify non segue le scelte delle radio, mentre può accadere l’influenza inversa. Il marketing si fa direttamente sui social, non ha più bisogno della rivista. Si crea un modo di consumare diverso. Che alle vecchie generazioni di musicisti non piace".

  

Da portatore sano della specie, prendo atto dell’accadere.

“All’epoca del punk inglese, me lo raccontavano da ragazzino, girava la voce, forse leggenda, che Rick Wakeman avesse minacciato la sua Label: ‘Se firmate i Sex Pistols me ne vado io!’. Guardiamo la trap, ormai nella sua fase di lento declino. Non era accettabile per un musicista. E poi l’orrore per l’autotune. Ma in realtà è stato utilizzato come un suono, uno strumento. Ti permette di deviare la voce verso nuove atmosfere. Questa è la mia teoria, bislacca: la trap arriva in un momento in cui l’hip hop è un filo saturo della sua formula, rime serrate e campioni. La trap disintegra addirittura l’obbligo della rima e grazie all’ autotune chiunque può tentare nuove curve melodiche, anche chi magari nemmeno sa cantare. Perché nella trap succedono melodie aliene che suonano diverse. Al dunque, riscrive le regole dell’hip hop e rinnova il pop stesso, avvicinandoli”.

  

Ti capita di piazzare qualcosa che non ti piace per niente?

“Quello che piazzo lo reputo buono. Anche quando ho affrontato i generi più contestati dall’intellighenzia, vedi reggaeton, o il latino, credo di aver coordinato, come editore, il miglior latino che si potesse fare in Italia. Quando esco dall’ufficio ascolto altro: non per snobismo, ma perché ho la necessità di tornare ai miei suoni, alle mie passioni. Vengo da un mondo, chiamiamoli gli alternativi Novantiani, che sembrava quasi censurare gli eccessi melodici caratteristici di un certo pop italiano. Ma ho fatto una scelta: lavorare per una etichetta generalista. Abbiamo dalla Deutsche Grammophon al più truce dei trapper. Questo non mi ha impedito di fare anche cose a me più vicine. Nel 2015 ho firmato come editore il bellissimo album ‘Die’ di Iosonouncane. Ho lavorato con Il Teatro degli Orrori, i Ministri, i Verdena.

 

   

L’istinto del segugio, quando nasce?

“Lavoravo alla Jungle sound di Milano e sceglievo band. Non esisteva internet. La mia prima firma furono gli Scisma. Siamo intorno al ’95. Le multinazionali creavano sottoetichette alternative, per dialogare con quella nuova realtà, e io diventai un tramite. Nel 1996 feci produrre gli Scisma a Manuel Agnelli: l’avevo visto in studio, molto pragmatico, lavorava benissimo sul songwriting. Nonostante si firmasse con una major, tutta quella filiera, dai La Crus ai Ritmo tribale, faceva la sua cosa. Anche se con inevitabile rapporto conflittuale. Era nella cultura di quel genere essere dentro, ma andare contro. Io ho sempre visto le major come una banca. Se ti danno la possibilità di esprimerti liberamente, perché no?”.

  

Questione eterna e generazionale, il rimproverarsi il successo. Il riconoscerlo ambiguo, o venduto.

“Una mentalità che mi appartiene e che censuro quando entro in questo ufficio. In ogni scelta che faccio, estremamente pop, c’è una parte di me che rema contro”.

L’io diviso del professionista. Con una sola certezza: la predisposizione a lavorare sulla genesi della canzone. Anzi, la pura libidine. Verso la melodia.

“La melodia lavora dentro, e ha la forza di portarti fuori dal genere. Faccio l’esempio del mio amato thrash metal: perché i Metallica sono conosciuti da tutti, ed altri gruppi incredibili rimangono leggende circoscritte al genere? Semplicemente perché James Hetfield scriveva canzoni incredibili".

  

Quelle che tolto tutto, voce e chitarra, si cantano in spiaggia. Quelle che scomodano e scuotono il sentimento. La nostra memoria, è fatta di canzoni. Contro la paura. Brunori sas. ‘Ma non ti sembra un miracolo/ Che in mezzo a questo dolore/ E tutto questo rumore/ A volte basta una canzone/ Anche una stupida canzone…/ A ricordarti chi sei’.

“Ok, anche il testo fa il suo: ma di una hit si ricorda quasi sempre una melodia che rimane incollata in testa”

 

Non si rischia sempre di riesumare qualcosa di già sentito?

“La storia del pop è talmente lunga, saranno 70 anni, che somigliarsi succede per forza. Quando ascolti quello che è uscito negli anni ‘60 dici: com’è che è successa questa cosa? Però è giusto dire che è stata scritta su una lavagna vuota. Prova poi, adesso, o nel tempo, a scrivere diverso, altro, di nuovo, in uno spazio sempre più stretto”.

   

Veniamo al cosiddetto Canzonificio.

“Lo abbiano messo in piedi ispirandoci al modello svedese degli anni zero. Prendere un producer/composer, metterlo insieme ai topliners (artigiani della canzone, dietro le quinte dell’industria) e creare i più grossi successi del periodo. Quando ho cominciato giravano tra gli addetti ai lavori che cercavano canzoni demo di voce e chitarra, spesso un lalala tutto da interpretare. Loro fanno il botto: arrivano col pezzo prodotto e finito: togli il vocalist/turnista e metti l’artista giusto”.

  

Si perde un po’ quel pascolo ‘animista’, e si entra in una sorta di allevamento intensivo. Di sano, c’è però un obbligatorio contagio.

“Che fa bene alla creazione. Ogni giorno andiamo in studio, imbastiamo canzoni, valutiamo a chi possono interessare, ci informiamo su chi cerca, cosa, e andiamo in giro a proporre. Ma lavoriamo anche con chi le fa, e magari ha bisogno di un ritornello vincente.” Il frivolo despota.

 

La canzone come un’automobile. Produzioni separate. L’industria, appunto. Molti dei ritornelli che ci hanno riempito la testa sono stati estrapolati da provini di autori che non abbiamo mai sentito. Al massimo li avremo letti distrattamente tra parentesi sotto le performance sanremesi. Possiamo smettere di chiederci come sia possibile che ci vogliano 4/5 persone per scrivere una canzone di tre minuti. Tra questi topliner dietro le quinte risalta Federica Abbate. Vinse il primo anno di ‘Genova per voi’, il concorso talent senza tv a caccia di autori di canzoni per il quale Klaus e Universal Publishing seguono i laboratori e i finalisti.

“Da allora avrà firmato almeno trenta degli ultimi successi italiani degli ultimi dieci anni. Ma adesso ti faccio sentire…”

  

E piazza il cursore su una traccia sullo schermo del portatile.

“Lavoravo per Amici, coach dei rapper era Takagi, che è un producer di successo da oltre vent’anni, gli propongo il ritornello di questo pezzo. In radio.”

 

Ascolto anch’io il brano originale, scarno, strofe un po’ quadrate, dove poi si apre un ritornello che conosco bene.

“Allora togliamo tutto il resto, Takagi (assieme all’allora nuovo socio Ketra) ricostruisce la base, la fa sentire a Marracash che, entusiasta, riscrive le strofe, e diventa il pezzone del suo album Status. Provò varie voci famose, per quel ritornello, alla fine decise di tenere la voce originale di Federica”.

   

Lo stesso meccanismo per ‘Pamplona’ di Fabri Fibra. La cui foto tessera è appesa alla parete, faccia da bambino, con scritto sopra in pennarello: 2004.

Sanremo è ancora caldo, e parecchie canzoni in gara facevano parte della sua scuderia. Immagino avrai dei nemici, per questo.

“Non molti, spero. Cerco di evitare l’ostentazione dei traguardi raggiunti: i social sono pericolosissimi. Mi piace stare dietro le quinte. Silenzioso, sotto traccia. Una dimensione che ti permette di sorprendere”.