Foto Ansa 

Né di qua né di là. Perché Battiato è un raro caso di libertà italiana

Francesco Palmieri      

Sopra o sotto le sue armonie non c’erano le rette dell’aritmetica perbene ma i cerchi vorticosi dello spiritualismo che attraversò il Novecento

Non stette mai di qua né di là persino quando ci stavano tutti. Non si disse né qualcuno fu mai così imprudente da dirlo di destra o di sinistra perché sfuggiva ai critici, anche ai più tendenziosi, quell’oceano di testi e di armonie che scorrono nei suoni – come nel silenzio – “senza centro né principio”. Fu il cerchio mistico percorso dai sufi (che dopo una severa autodisciplina imparò anche a dipingere), o il cerchio ciclico degli yuga indiani quello su cui si mosse Franco Battiato in una ricerca che includeva, negli ultimi anni, anche l’esperienza cinematografica.


Non poteva perciò che spiazzare chi è aduso alle comodità della rosa dei venti, agli spigoli dei punti cardinali in cui viene spesso risolta la geografia politica. O chi venera la linearità della storia che mai più potrà revolvere il cammino – proseguendo come freccia inesorabile – sicché si spera in qualche messia che chiuda i tempi una volta per tutte, messia cui molti colleghi cantautori di Battiato, negli ultimi decenni del secolo scorso, allusero col nome di Marx, essendo quello di Cristo in musica recluso nel “giro di do” degli accompagnamenti domenicali alla messa.


Quando sugli scaffali della cultura laureata prevaleva il fulgor bianco di Einaudi, il cantautore siciliano abbandonata la fase della sperimentazione cominciava a collocarvi, nella sintesi delle canzoni, quei mondi lontanissimi attinti ai testi che intanto andavano accrescendo il catalogo Adelphi. E che prima, attraverso l’editoria minore, avevano abitato certe biblioteche dell’orientalismo di cifra italiana su cui si formò anche la destra tradizionale. Ma Battiato rifiutò tesseramenti e cooptazioni, anche se chi fosse Gurdjieff o René Guénon, e cosa fosse Il Re del Mondo lo sapevano in pochissimi “dall’altra parte”, non più di quanti conoscessero l’epopea degli hobbit nella traduzione italiana del Signore degli anelli caldeggiata per Rusconi da Elémire Zolla. Soltanto molti anni dopo, grazie alla trilogia trasposta al cinema, Tolkien avrebbe passato la dogana e sarebbe diventato “patrimonio di tutti”. (Ciascuno attribuendo a Sauron l’identità del preferibile cattivo).


Battiato non cadde in questo gioco compulsivo del samsara politico, salvo una brevissima esperienza da assessore al Turismo in Sicilia troncata dalla sua invettiva sulle “troie in Parlamento”. Non cadde nel bipolarismo Peppone e don Camillo, nella ruffiana leva obbligatoria dell’impegno quando sarebbe stato facile, aderendo, far passare la ricerca del centro di gravità permanente o i versi di “Povera patria” come un accredito politico, civile, sociale. (La scelta è a piacere). Fu un raro caso di libertà italiana, simile per certi aspetti a quello di Fellini che superò il neorealismo con le orecchie che gli fischiavano per aprirsi allo Yi Jing o alla ricerca sul mistero dei sogni e della morte. Chi non si è spinto oltre Il pendolo di Foucault né oltre un eurocentrismo provinciale poté dire dei testi di Battiato, o di quelli composti per lui da Manlio Sgalambro, che si trattava “di minchiate assolute”. Neppure è questione di schieramenti ideologici: la Murgia no, ma Calvino avrebbe capito quei versi anche dalla distanza perché amava Borges, aveva studiato i tarocchi e perché scrisse che la poesia è come riversare un po’ di mare in un imbuto ed è per questa  stretta via – come un cammello in una grondaia – che Battiato riuscì a trasferire con i suoni quell’Oceano di silenzio. Dove chi cerca i punti cardinali, mancando di uno spirituale orientamento, per forza si smarrisce. Così i misteri, persa la freccia del senso unico che impone “andare avanti”, diventano per forza “minchiate assolute”.


Sopra o sotto le armonie di Battiato non c’erano le rette dell’aritmetica perbene ma i cerchi vorticosi dello spiritualismo che attraversò il Novecento con i nomi di Jung, Kerényi, Tucci, Eliade, Culianu i quali lo schiusero senza pregiudizi all’oriente sin dagli anni Venti. Senza farne alternativa all’occidente (e fu così che Battiato cantò dinanzi a Papa Wojtyla). Che la fisica quantistica, i mistici medievali e i monaci di Ganden si potessero – si possano – intendere Battiato ce lo ha ripetuto innumerevoli volte e lo ha anche raccontato con il documentario “Attraversando il bardo: sguardi sull’aldilà” del 2014. Ed è, il bardo, lo stadio intermedio dove lui, prima della morte, era volato dopo avere indicato la possibilità di un centro a quanti sono convinti, come scrisse senza cantarlo, che “la mente e il corpo sono rispettivamente il viaggiatore e la sua residenza temporanea”.


Nel frattempo, la freccia della Storia s’è persa nel nebbione di un domani trascorso.  Mentre Battiato è già un classico “senza centro né principio”.
 

Di più su questi argomenti: