Il foglio della moda

I molti rischi delle t-shirt manifesto

Claudia Vanti

La moda è (anche) politica, ma quando lo mostra esplicitamente si avventura in acque insidiose: l'esempio di "We should all be feminists" di Chimamanda Ngozi Adichie adottato da Dior

La moda è (anche) politica, ma quando lo mostra esplicitamente si avventura in acque insidiose. Da gennaio è disponibile su Disney+ Cristòbal Balenciaga, serie dedicata a uno dei couturier più riservati di sempre, la cui esistenza ha subito più volte le ragioni della politica: dalla fuga a Parigi a causa della guerra civile spagnola, ai rapporti con il politico repubblicano Nicolàs Bizcarrondo che fu il primo finanziatore della maison, la scelta di tenere aperto l’atelier nella Parigi occupata, la chiusura dell’attività nel 1968, un’epoca che non sentiva più affine al suo lavoro. La serie ha il merito di rendere bene il totale riserbo che ha distinto la vita di Balenciaga e il valore delle sue azioni che, ben lungi dall’essere banalmente conservatrici, erano è il riflesso di una visione individuale contraria al puro profitto della produzione industriale. Condivisibile o meno, questa era un’azione politica a tutti gli effetti, che si rifletteva già sugli abiti creati nei primi anni della sua attività. Quando invece questi diventano tazebao che promuovono il famigerato “messaggio” – tanto più esibito quando il medium espressivo è debole -  le cose non funzionano quasi mai.
 

Si può immaginare un deterrente maggiore per chi abbia voglia di acquistare? Ci è voluta tutta l’ingenuità degli anni Ottanta e l’entusiasmo di George Michael (“Freedom”) per dare un senso agli slogan semplicissimi e per questo teneri delle maxi t-shirt di Katharine Hamnett: “Choose Life”, “Save the World” o il più mirato “Stop Acid Rain”, che hanno senso ancora oggi, come fermo immagine del periodo e della moda delle subculture che presto sarebbero state cannibalizzate dai brand. Poco dopo, quando durante la prima Guerra del Golfo, comparvero gli abiti con la scritta “Peace” un po’ ovunque (perfino da Valentino, però con un ricamo argento su bianco che dava alle scritte dignità pittorica) si arrivò vicino ai desiderata di una Miss Italia qualunque, un qualunquismo declamatorio che ogni tanto compare anche oggi. Nel 1988, Yves Saint Laurent aveva già cosparso le sue “robe Oiseau” di colombe bianche, presagendo la precarietà degli equilibri mondiali o pensando solo (più probabilmente) alle pennellate di Braque e Matisse? In ogni caso, sicuramente politica era stata invece la voglia di rendere meno elitaria la sua moda con Rive Gauche. Allo stesso modo stilisti politici sono stati Martin Margiela, nella pratica di un re-made visionario in anticipo di trent’anni sul resto del mondo che stava per tuffarsi allegramente nel fast fashion, e altri per i quali  la storia e la politica sono innestate nel loro DNA, Hussein Chalayan e Demna, entrambi con un vissuto di rifugiati che filtra dalle loro collezioni (un abito scomponibile in un bagaglio a mano per una fuga improvvisa, un traforo che è il buco di una pallottola): un’attitudine talmente connaturata da diventare elemento di elaborazione continua, fino alle sfilate che proprio Demna allestisce come un saggio socio-politico per immagini, con risultati alterni ma spesso mirando a ironizzare sui suoi stessi clienti.
 

Fare politica con la moda si può, ma senza proclami., sebbene sia innegabile che a volte la t-shirt manifesto paghi in termini di vendita: “We should all be feminists”, titolo di Chimamanda Ngozi Adichie adottato da Dior è stata un successo enorme, ma visto che il progetto visivo della designer sulla femminilità è complesso e prolungato (e, non in ultimo, svolto all’interno di una maison che ha le sue radici nella forma a clessidra più conservatrice) questa si spera sia stata la classica eccezione che conferma la regola. Una dichiarazione d’intenti utile per il debutto, per poi andare oltre. E l’ultima collezione couture di Dior, composta di abiti tagliati e cuciti benissimo ma senza eccessi di decorazione e senza nessun virtuosismo fine a se stesso è una presa di posizione più forte di qualsiasi t-shirt ambita dalle influencer in prossimo disarmo.

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