Milano Fashion week (Ansa)

il foglio della moda

Nostalgia canaglia. Si può essere giovani e rimpiangere un passato non vissuto? Eccome

Beatrice Manca

Riflessioni sulle sfilate di Milano e Parigi e l’impatto del conosciuto sulle vendite. Perché in fondo, più che conoscere si vuole ri-conoscere. Stonando Battisti

Anche nella moda esistono eredità più ingombranti di altre. Le sfilate Primavera-Estate 2024 di Milano e di Parigi appena concluse, per esempio, hanno dimostrato che l’heritage – quel patrimonio immateriale che nutre la storia e il fascino di un brand – è diventato l’asso nella manica dei direttori creativi, da calare al momento giusto tra citazioni, cameo, omaggi, strizzate d’occhio, per la gioia dei cultori della materia e la scoperta innocente dei neofiti. Un po’ come accade al cinema, affollato di reboot, live action e remake. Nella moda la storia si ripete, in abiti, letteralmente, diversi.

 

La migliore rappresentazione plastico-scultorea del concetto l’ha data Fendi durante il primo giorno di sfilate milanesi: le borse più celebri, dalla “Baguette” alla “Peekaboo”, erano infatti divenute parte della scenografia, mentre  la collezione disegnata da Kim Jones si ispirava sì allo stile delle borghesi romane (prime tra tutte le Venturini-Fendi) ma rubava la palette di aranci e azzurri a una sfilata di Karl Lagerfeld del 1999, prendendo anche in prestito il logo FF geometrico disegnato dallo stilista nel 1965 e poi rivisto e reinterpretato decine di volte (curiosità a margine: non doveva richiamare solo il nome della famiglia fondatrice, ma era anche l’acronimo di “fun fur”; all’epoca la pelliccia era un punto di arrivo sociale). Tutti i grandi debutti di questa Milano Fashion Week avevano il sapore di un omaggio: perfino la rivoluzione minimal di Sabato De Sarno da Gucci non è riuscita a fare a meno di guardare all’estetica dell’inizio del nuovo millennio, e, di conseguenza, a Tom Ford, vero convitato di pietra della fashion week. Tra camicie sbottonate, shorts e abiti disegnati sul corpo, anche la collezione disegnata da Peter Hawkings per Tom Ford, la prima dopo la cessione del marchio, indulgeva infatti in quella sensualità impenitente che fra gli Anni Novanta e i primi Duemila caratterizzò la lunga era della moda dominata dallo stilista texano ben oltre Gucci e Saint Laurent. Paradossalmente, è stata meno letterale la sfilata celebrativa dei quaranta anni di Moschino, curata da quattro stylist nel ricordo del defunto stilista. Guardando sfilare gli abiti bon ton di Versace, invece, è stato facile intravedere i tailleur disegnati per la Primavera 1995, con giacche e minigonne dai colori pastello già allora, come oggi, indossati da Claudia Schiffer. La scarpa di punta della stagione, neanche a dirlo, è la ballerina con il fiocco ‘Gianni’.

Ironia del fashion business: i maestri citati in passerella raramente citavano, gli omaggiati raramente omaggiavano. Se hanno conquistato un posto nella storia nella moda è stato anche grazie alla loro capacità di far piazza pulita del passato, di azzerare il già visto, di inventare e di reinventarsi di continuo.

Parigi, in quanto a inchini, non è stata da meno. Daniel Roseberry, che si è sempre vantato di non aver letto le biografie di Elsa Schiaparelli per non esserne influenzato, questa volta ha citato il suo memoir: in passerella sono riapparsi il nastro da sarta e i primi pullover commissionati dalla couturière alla fine degli Anni Venti ad Aroosiag Azarian, esponente di spicco della diaspora armena e abilissima con la maglia, ma anche l’aragosta dipinta da Salvador Dalí per un celeberrimo abito da ballo di Wallis Simpson, ripescata, è il caso di dirlo, e trasformata in un grande pendente. Da Saint Laurent, è tornata la leggendaria giacca sahariana di una storica collezione e uno scatto ancor più iconico di Franco Rubartelli con Verushka: Anthony Vaccarello ha disegnato uno dei look ricalcandolo direttamente dalla collezione estiva di monsieur Yves del 1967. Anche Maria Grazia Chiuri ha riaperto gli archivi di Dior: ne è emerso l’abito Abandon del 1948, riproposto nel guardaroba della “strega contemporanea” che indossa bracciali-talismano. Christian Dior, come molti sanno ma perché non sottolinearlo ancora, era un grande appassionato di astrologia: la sua cartomante gli aveva suggerito di non trascorrere quella vacanza a Montecatini che gli fu fatale.

 

Insomma, se è vero che la moda racconta qualcosa del nostro tempo, le passerelle di Milano e Parigi confermano che siamo una generazione di nostalgici. Giovani o meno, non importa: guardiamo serie tv che conosciamo a memoria, ordiniamo sempre la stessa pizza al ristorante, ascoltiamo canzoni vecchie di decenni cantante da popstar adolescenti, stoniamo Battisti. Vogliamo riconoscere, più che conoscere. Vogliamo essere rassicurati anche dalle passerelle. Sarà forse lo spettro della catastrofe climatica, cadenzata da una serie sempre più lunga di eventi atmosferici devastanti. Sarà l’inquietante potenziale dell’intelligenza artificiale, ma quello che abbiamo visto in queste ultime settimane sembra suggerirci che nessuno voglia davvero vedere cosa ci riserva il futuro, e forse nemmeno abbozzarlo. Oppure, semplicemente, non abbiamo la più pallida idea di cosa inventarci.

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