sfilate a milano

Ordine e classicità. Insomma, value for money. Alfabeto della Milano Fashion Week

Alla fine ha avuto ragione Armani, che ha visto tramontare l'impero di Michele da Gucci e risorgere il suo stile. Ecco il tradizionale alfabeto delle collezioni Milano Moda Donna primavera 2024. Con tutto quello che c'è da sapere e molti retroscena

Fabiana Giacomotti

Vi siete accorti, vero, che Giorgio Armani ha promosso la collezione Gucci di Sabato De Sarno? Non è stato esplicito, però risultava evidente chi fosse il destinatario dei suoi pensieri nell’accenno post-sfilata al cambio di passo visto nelle sfilate donna estate 2024 di Milano, che avvicina la moda degli altri alla sua e azzera quasi un decennio di dominio di Alessandro Michele: “Quello che c’è in giro adesso mi fa pensare che quanto ho detto nel corso di questi anni sia venuto finalmente fuori. Qualcuno ha capito. Ho visto le collezioni sulle foto e c’è molta normalità, ma anche ricerca, com’è giusto nel nostro mestiere. Però si sono un po’ dimenticati dell’effettaccio”.

Nonostante il parterre dei critici sia ancora un po’ titubante, la Borsa ha premiato il nuovo corso di Gucci, non banale ma certamente atemporale, con un bel +4 per cento, così come in generale sta premiando la grande, elegante concretezza della fashion week milanese. Buyer in attesa di partire per Parigi, comunque molto contenti. Ieri sera alla cena dei CNMI Sustainable Fashion Awards a Palazzo Marino, Gigliola Maule, presidente e co-fondatrice della Camera Showroom Milano, l’associazione promuove e gestisce il ciclo produttivo e distributivo della moda, con un fatturato complessivo di 800 milioni di euro, immaginava la nascita di un grande hub creativo-commerciale come una svolta necessaria per affermare anche in prospettiva futura il ruolo della città, contrastando la smania acquisitiva dei grandi gruppi. Insomma, si torna sempre alla questione di Palazzo Dugnani, il grande progetto abbandonato un po’ per mancanza di fondi un po’ per questioni politiche e di veti incrociati. Nel frattempo, ecco l’ormai classico “alfabeto” delle sfilate.

A come addii (valzer degli). L’uscita finale di Walter Chiapponi, che lascia la direzione creativa Tod’s per ragioni personali, con quel suo round of applause lungo tutto lo spazio, come in altri tempi non avrebbe mai fatto, ha stretto il cuore a tutti gli invitati alla sfilata della collezione, senza dubbi la sua migliore, organizzata nei laboratori del Teatro alla Scala all’Ansaldo dove abbiamo visto dipingere fondali e nascere mondi. La sua sostituzione è alle fasi finali, con gran dispiacere di tutti.

Attico (The). La prima sfilata avviene lungo tutta la via Guerrazzi, chiusa al traffico e allestita di divani eterogenei, sotto i migliori auspici dell’universo della moda, la benedizione di Giove pluvio, che per tutta la settimana non è stata scontata come s’è visto che caso di Gucci, ma anche con la presenza affettuosa degli amici, fra i quali Dean e Dan Caten (DSquared2), Carlo Mengucci, Alessio Vannetti e Sabato De Sarno, che ci diceva come, in effetti, la sua collezione avrebbe guadagnato nello sfilare lungo le strade di Brera, ma anche di essere molto soddisfatto comunque del risultati (e come la Borsa e molti buyer di grande peso, Beppe Angiolini in testa, hanno infatti certificato, vedere intro).

Collezione “The morning after”, la mattina dopo, di The Attico in sintesi: cristalli, abitini leggeri o fatti di fasce annodate, pellicciotti e pelliccioni ovviamente fintissimi e colorati (no, non sono ecologici e lo sappiamo, ma è inutile continuare la battaglia), pantaloni e denim scivolati in vita. In sintesi, la summa di tutto quello che le ragazze belle, di gambe lunghe e di mezzi adeguati possono desiderare adesso e anche fra sei mesi. Per chi negli Ottanta bazzicava Londra, l’equivalente di Voyage, più hype e meno bohémien. Ovviamente favolose le nuove slingback da sera, ma che cosa ci si sarebbe potuto attendere di diverso da Giorgia Tordini, erede di una famiglia di calzaturieri, che prima di diventare una influencer-socialite e di fare società con Gilda Ambrosio affiancava il babbo nel design e nella scelta dei pellami nelle Marche. Il tandem Ambrosio-Tordini, sostenuto dalla famiglia Ruffini con tutto quello che significa in termini di potere di marketing, di comunicazione e di media (la sfilata era organizzata da Etienne Russo, l’ufficio stampa che affiancava quello interno era Lucien Pagès, mentre Andreina Longhi aveva gentilmente concesso per cinque giorni l’uso della villa Anni Trenta dove si trovano i suoi uffici per il backstage) ha influenza sull’universo giovane della moda ben oltre gli abiti che disegna. Sono loro a lanciare nuovi fotografi, nuovi stylist, nuovi luoghi di incontro, nuovi stili. Gilda e Giorgia sono tutto quello che Chiara Ferragni avrebbe potuto essere se non avesse scelto la strada del pop e avesse saputo aspettare e lavorare, con consiglieri all’altezza, sul proprio marchio.

 

B come bianco. Tutti, alcuni in modo veramente evidente. Per esempio Ferrari, dove Rocco Iannone sta acquisendo sempre maggiore sicurezza e centrando la propria creatività su quella di un marchio noto per la potenza, ma non per l’eleganza, con l’aggravante di un film hollywoodiano particolarmente cheap, diretto da Michael Mann, in arrivo a fare danni. Belle in particolare le prime uscite: i mini-abiti con i guanti da guida sportiva trasformati in lunghi guanti sexy perfetti). Bianco ottico ovunque, moltissimo da Sportmax che ogni tanto va fuori registro con il carico applicato all’ispirazione (non siamo facendo il saggio della scuola di moda, corretto?), molti bianchi gessosi da Giada, piacevole e rigorosa come sempre, ancorché meno innovativa del solito, denim bianco, cioè naturale, in versione abito da sera da John Richmond, bianco virante al rosa da Armani, in una sera magnifica di veli e di luce che piacerà molto alle signore di età diversa da quelle che comprano gli abiti da sera fatti di nodi da The Attico.

B come Bonotto. In qualche fabbrica credete che vengano immaginati i tessuti tanto sperimentali di Bottega Veneta?

B come borse. Magistrali da Ferragamo. Forme nuove, pellami interessanti, e sebbene si potesse ravvisare un accenno al Ferré dei bei tempi nell’ispirazione degli abiti e dell’abbinamento fra grosse cinture-camicie portato in passerella da Maximilian Davis, va bene così. Tutto sommato, è quanto si chiede al marchio: borse e scarpe che lascino una traccia almeno avvicinabile a quella del fondatore.

C come Community. Il sostantivo/campo semantico più abusato dell’anno (crearla non è facile come dirlo, ognuno trova il proprio modo, Pierpaolo Piccioli ha scelto quello che oggi stanno copiando tutti, la valorizzazione degli artigiani, dunque di chi lavora per te). Qualcuno, come il nuovo direttore creativo di Bally, Simone Bellotti, lunghi trascorsi da Dolce&Gabbana, Bottega Veneta, Ferré e soprattutto Gucci, è andato alle radici del concetto e ha lavorato sulla comunità del Monte Verità, che in genere chi non frequenta la Svizzera non conosce, ma che fu la grande prova di una “comune” del pensiero e della sessualità agli albori del secolo scorso. Le cartelle deliziose con le fragole stampate arrivavano da lì, insieme con le gonne corte, il progressivo spogliamento dai codici formali classici e quell’arietta di libero pensiero in stato neutrale.

C come culotte o anche M come mutande. Abbiamo avuto modo di scriverne già nei giorni scorsi. Mutande ovunque, o anche pantaloncini cortissimi, indossati sotto le giacche. Qualcuno crede che si tratti di un trend mirato alla liberazione delle donne dall’incontrollabile lubricità dei maschi (che sì, dovrebbero sentirsi umiliati dallo stato dei loro ormoni e dalla scarsa dominanza che hanno sull’”io”, ce lo diciamo da secoli, eppure curiosamente continuano ad andarne orgogliosi). Non è così: sebbene le ragazze per strada indossino da tempo pantaloncini e giacche con le scarpe basse e stringate, l’obiettivo di queste presentazioni è di mostrare in bella evidenza la scomponibilità dei capi e massimizzare le vendite senza troppo styling a guastare.

E come essenzialità. C’erano quelli imprescindibili (Armani, Jil Sander, Calcaterra, la sua migliore da sempre), quelli meno ma comunque attesi (Gucci), quelli molto inattesi (Hui, bella la valorizzazione dell’etnia Miao per opera della stilista cinese, che in realtà ha alle spalle molte menti creative italiane). Vicino all’essenzialità assoluta, Tod’s: eliminata ogni decorazione, Chiapponi ha affidato la costruzione dei capi al taglio, ai volumi e alla qualità dei materiali, con una bella citazione del guardaroba maschile e del minimalismo Anni Novanta a cui si sta avvicinando la generazione che non li ha ancora vissuti (nei volumi, soprattutto. Osservate i pantaloni delle ragazze per strada e vi sarà chiaro: via bassa, ampissimi, di foggia maschile.

 

F come forma (e V come volumi). Ampi, squadrati, spalle scese, in una evoluzione degli Ottanta e dei primi Novanta per i marchi di tendenza. Poi continuano a esistere i marchi che vestono le donne come Barbie e i volti televisivi che credono che moda equivalga a sfoderare il décollété di prima mattina. La differenza fra chi veste moda e le figuranti dei programmi di calcio o del “Grande fratello” non è mai stata così evidente.

F come frange. Abbiamo capito che danno un bel movimento, ma o le si fa benissimo o è meglio evitare. La “tripolina” sintetica modello tv Anni Sessanta di Mina, che è la strada scelta dai brand di minor rilevanza, è meglio evitare. Costi inutili, meglio puntare sul taglio.

I come Impacciatore (Sabrina). Nomen omen. Il suo monologo ai CNMI Sustainable Fashion Awards, cenni sull’universo da sussidiario di terza media, ha testato la tenuta dei nervi degli spettatori. La moda, in genere, ha visto tutto prima degli altri, di solito lo decide pure. Quindi, semplicemente, non si può salire sul palcoscenico calcato da Maria Callas e proferire banalità, in pessimo inglese e con il tono stentoreo delle
commedie di Gabriele Muccino, a gente che guida aziende da miliardi di euro e parla con i premi Nobel. E dire che sulla carta pareva un’ottima scelta.

I come indovinello. Chi è il grande creativo che la scorsa estate ha chiesto ospitalità nella villa di famiglia in Sardegna di un grande nome del beverage convinto che si trattasse di un resort e che, nello stupore divertito del proprietario, vi ha trascorso una settimana?

K come Kering. Il gruppo vince non uno ma due premi ai CNMI Sustainable Fashion Award (platealmente assenti al Teatro alla Scala gli esponenti del conglomerato concorrente). Gucci per il "Denim Project" di Gucci, sviluppato in collaborazione con International Promo Studio, Candiani Denim e Filatura Astro, e la holding nella categoria "Biodiversity Water" per il Regenerative Fund for Nature, lanciato insieme a Conservation International nel 2021 con la finalità di trasformare 1.000.000 di ettari di colture e pascoli in spazi agricoli rigenerativi nei prossimi cinque anni; e il Climate Fund for Nature, lanciato nel 2022 per proteggere e ripristinare la natura, che vanta anche una particolare attenzione all'emancipazione delle donne, con 140 milioni di euro già impegnati a fronte di un obiettivo di 300 milioni di euro. Da cui emerge evidentissimo come anche la sostenibilità sia una questione di disponibilità economica.

M come monocromia. Praticata con voluttà, meglio sui toni del grigio (Tod’s), del bianco (vedere alla voce), del blu e del verde salvia (Max Mara, anche in declinazione menta chiaro), dell’azzurro polvere (Fendi). Accettati tocchi di arancio e di rosso lacca, meglio se in pelle (Bally, in omaggio ai colori della bandiera svizzera). Bello il mordoré/bronzo dei pantaloni di Armani, fra i pochi a poter usare tessuti lucidi e armature complesse (nel senso di telaio) senza risultare eccessivo. 

M come Moschino. Quanta malinconia in quel teatrone col sipario rosso modello Scala montato in uno spazio industriale troppo grande. Così come la collezione di Gucci sarebbe figurata al meglio lungo via Fiori Chiari, allo stesso modo l’esercizio creativo delle quattro stylist di grido chiamate a reinterpretare le quattro decadi della storia di Moschino avrebbe acquistato in efficacia – e soprattutto di ironia, cifra del brand, qui del tutto assente – in un teatro vero.

N come New York. Dopo molti anni e molti successi a Manhattan, Chiara Boni torna a sfilare a Milano con i suoi abiti deliziosi e molto donanti (nessuna al mondo ormai ignora che facciano perdere otticamente una taglia, i pantaloni soprattutto), fa aprire la passerella all’amico/a Drusilla Foer in cappa di taffetta’ prugna con ruches, affida al fedelissimo Simone Guidarelli uno styling urban-afro (divertenti anche le borsine quadrate di perline multicolore) e smentisce platealmente il “Wall Street Journal” dicendo che le passerelle europee sono molto più internazionali. Si sapeva, ma è sempre bello sentirlo.

P come polo. Sempre meno t-shirt, sempre più polo, piacevoli anche sul collo delle non-ventenni, e anche con fiori applicati come da MSGM. Massimo Giorgetti coglie sempre, astutamente, l’attimo.

S come Scervino. Un dilemma. Produce moda pret-à-porter assimilabile alla haute couture (l’abito-gabbia dorata, ricamato a telaio, che ha sfilato sabato all’Università Statale, era di qualità museale, per non dire i cardigan ricamati, tutti singolarmente fatti a mano). Meriterebbe dunque di ampliare ancora maggiormente la propria sfera di influenza sul settore, e dunque un fondo apporterebbe gli investimenti necessari a raggiungere gli obiettivi. Ma costringerebbe Ermanno e Toni Scervino a scendere a patti con quel livello di qualità, e metterebbe bocca nel grande ufficio immacolato di Ermanno per fargli produrre camicioni e caftanoni ricamati a macchina. Non se ne esce.

T come tacchi. Bassi. Molti sandali allacciati alla caviglia, molte infradito graziose (per esempio da Luisa Spagnoli, che in effetti non andrebbe nota per le scarpe, eppure ne ha prodotte di molto riuscite, e non si può dire lo stesso delle stampe di questa stagione). Molto originali,. in effetti li vorremmo subito, gli stivaletti di raso modello boxeur di Armani.

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