Chiara Ferragni (Foto LaPresse)

L'eleganza di un red carpet

Fabiana Giacomotti

Quant’è difficile farsi notare a Venezia, da quando il politicamente corretto è finito nel dress code

Considerando il numero e la rilevanza dei veti incrociati e delle autocensure preventive di ordine politicamente corretto, personale, pubblicitario per la casa editrice pubblicante che i giornalisti di costume&società si impongono, è incredibile che esistano ancora le classifiche dei “meglio-e-peggio vestiti” e che, anzi, i “su e giù”, i “sali e scendi”, le “bucce di banana”, i “vip watching” abbiano tanto successo. E’ un grande segnale di democrazia e di autonomia giornalistica, forse non ve ne rendete conto, e ve lo scrive una che grazie ai veti e alle punzecchiature a sciure di grido e manager rampanti ha tenuto in vita una testata per la quale non aveva a disposizione un decimo dei budget di cui godevano in quegli anni ricchissimi i suoi competitor.

 

Qualcuna ci ha tolto il saluto per anni, qualcun altro ci teme da allora. La passione per le classifica sui meglio e peggio vestiti

Qualcuna ci ha tolto il saluto per anni, qualcun altro ci teme da allora, ma possiamo garantire che nessun numero vendeva più di quello con lo strillo dei “magnifici e peggiori cento vestiti dell’anno”. Nessuno resiste a dare un’occhiata ai commenti sull’abito di Chiara Ferragni sul red carpet di Venezia (“noo, le si è davvero spostato il corpino”?) e allo svergognamento delle starlette che, in caso non lo sapeste, raramente assistono alla proiezione perché non hanno il biglietto o perché temono di annoiarsi o perché devono dare la caccia al produttore altrove (sì, il #metoo applicato è spesso diverso da come ce l’hanno raccontato), e dunque percorrono semplicemente il red carpet, inscenano lo smutandamento a favore di flash, entrano nella hall del Palazzo del Cinema con il pr e il parrucchiere al seguito, tutti uno strilletto e una mano sul cuore, amoreamoreamore, come nelle peggiori parodie dell’omosessualità, quindi bevono un bicchiere di spumante lamentandosi per la coda al bar con il vicino più prossimo verificando che la moglie non sia nei pressi ed escono sgattaiolando dalla porta posteriore, seguite dallo sguardo commiserevole dei buttafuori.

 

I commenti sull’eleganza altrui sono irresistibili, ci cadiamo perfino noi che di queste classifiche conosciamo tutti i trucchi e i segreti e che proprio per questo amiamo leggerne i messaggi in controluce o immaginare succosi retroscena attorno allo sbuffo di una manica o al pipistrello applicato su un girovita. L’attacco del settimanale X all’abito Y significa che il direttore ha litigato con la pr del relativo marchio o che non è stato rinnovato il contratto pubblicitario? E quanto ha davvero “incantato” il redattore la madrina della Mostra del Cinema di Venezia, Alessandra Mastronardi, “nel Gucci rosa”, ma anche nel “Prada della chiusura” e nell’“Etro blu” e in tutte le “differenti shape in colori accesi” e i “best look” che formano l’atroce lessico di queste classifiche – pensate sì per divertire e per divertirsi a scriverle, ma anche per non scontentare troppo chi dà l’agio per farlo, cioè l’advertiser, l’onorevolissimo investitore pubblicitario?

 

Gli uomini, per istinto sopito ma non dimenticato, si considerano ancora i custodi della morale e dell’eleganza femminili

Vedete, il punto è che l’eleganza, sui red carpet come altrove, è raramente una questione oggettiva, e badate bene che proprio in queste occasioni per così dire di spettacolo, quando è un’attrice a sfilare per un marchio e non una modella (i tempi in cui le star possedevano un guardaroba sono finiti, vivono a prestito anche loro), gli abiti vengono rivisitati, rifatti, adeguati all’occasione e al gusto del grande pubblico. Disegnati per piacere a tutti oppure scelti attentamente dall’ultima collezione fra quelli meno “difficili”. Tranne rari casi, come Armani, Chanel o Valentino, le linee sono a tal punto adeguate al concetto popolare medio dell’“abito da gran sera”, alternativamente Cenerentola al ballo o sirena del Lido, da rendere pressoché impossibile distinguere una griffe dall’altra. Da qui lo stupore parossistico di chi nulla conosce di questi maneggi a scopi promozionali nei riguardi dei commenti con cui accompagniamo invece le sfilate che, a New York, iniziano un minuto dopo la consegna del Leone d’Oro a Venezia: “Ma come, hai stroncato l’abito nero di Giulia Salemi sul red carpet e invece ti spelli le mani per quei pantaloni da ciclista arricciati che Tom Ford ha fatto sfilare in una stazione abbandonata del metro sui tacchi?”. E tu lì a spiegare per l’ennesima volta che una sfilata è la rappresentazione di un’idea e che a scomporre quelle costruzioni all’apparenza tanto eccentriche ne verranno fuori una gran serie di pantaloni con le pinces da manager ricca, sexy e impegnata e di gonne a matita, mentre le carni esposte di quella ragazzona bruna e florida sono proprio quello che si vede, cioè nulla di elegante, e tanto meno un’idea.

 

L’eleganza, sui red carpet come altrove, è raramente una questione oggettiva. I vestiti rivisitati per piacere al pubblico

Lo stile che si osserva in passerella oggi assomiglia più al Cortegiano di Baldassarre Castiglione e alla sua “naturalezza conquistata”, la famosa “sprezzatura”, oppure al Principe di Niccolò Machiavelli, la cui immagine pubblica può essere plasmata come un’opera d’arte. Digita l’amica Gigliola Castellini Curiel, ultima erede di una dinastia di grandissime artiste della sartoria, sul suo account instagram: “Esiste una moda intramontabile: il bon ton, lo stile delle donne di classe, mai volgari, ma in grado di far esplodere la femminilità”. Sì e no. La moda intramontabile non esiste, altrimenti si chiamerebbe costume e, almeno secondo Roland Barthes, parlerebbe il linguaggio dell’istituzionalità, e naturalmente anche il celeberrimo “curiellino” della capostipite Gigliola che arrivò a Milano dalla sua Trieste nei primi decenni del Novecento e che illuminava le Prime della Scala con i suoi meravigliosi occhi verdi non è lo stesso della nipote omonima. In compenso, del bon ton esiste un’idea preconcetta ma anche molto localistica: per mezzo secolo, a Milano, si è concretizzata nel cerchietto di velluto di cui Miuccia Prada ha riscritto i codici la scorsa stagione, trasformandolo in un’acconciatura a metà fra le aureole a piatto dipinte dal Mantegna e la capigliara di Isabella d’Este. Un cerchietto che le milanesi sono corse ad appoggiarsi sui capelli, felici come bambine, ma se doveste andare a Napoli, scoprireste che l’eleganza perbene si incarna in un abito lungo al ginocchio ma comunque scollato; punto, quest’ultimo, che sotto la Madonnina è ritenuto quanto di peggio. A Venezia scialli e broccati e furlane di velluto (queste ultime adottate con gioia dalle milanesi, sempre a caccia di scarpe piatte e dall’aria povero-raffinata); a Parigi abito o pantaloni ma sopra sempre il chiodo di pelle nera che per l’appunto spezza o sprezza. Quello che sulle classifiche viene definito “il twist”. Su un punto solo, gli eleganti di tutto il mondo concordano: la giacca da donna con la maglina scollata sotto mai. Troppo piccolo borghese, a tutte le latitudini.

 

L’inattesa bagarre che si è scatenata la scorsa settimana attorno all’abito blu elettrico a volant indossato dalla neoministra dell’Agricoltura Teresa Bellanova per il giuramento al Quirinale. Abito difeso con molto entusiasmo da tutti gli esperti di moda e stroncato senza pietà da buona parte di quell’opinione pubblica che osserva le sfilate e scuote la testa, ma poi si emoziona per i volant delle Salemi. Stile ed eleganza sono rappresentati dai primi, cioè i professionisti della moda, una sintesi di assertività, senso delle proporzioni e iconoclastia stilistica, a prescindere dal fatto che vengano declinati in organze bianche accollate o in giacche di pelle azzurro scuro (Tom Ford, ancora). I secondi, dunque per l’osservatore comune, si concentrano nell’apparente sicurezza del tailleur pantalone beige o blu, capo in realtà difficilissimo e che non a caso, potremmo citare infiniti casi parlamentari, ha inchiodato per sempre signorine di grandi ambizioni all’incertezza del loro stile. Quello che per i primi è ancora e sempre divino, o almeno “moderno”, “nuovo”, “divertente”, non di rado per i secondi è “una pacchianata”. Il termine merita una digressione perché, al pari di LOL che ormai non è più l’acronimo di una risata a crepapelle ma un segno di interpunzione secco, punto e a capo, cioè una risata stroncata sul nascere, insomma l’opposto del suo significato originario, anche “pacchianata” indica l’abito tradizionale di certe contadine del sud, carico di pizzi, onusto di gioielli vistosi, catene doppie scese sul petto e orecchini pendenti di filigrana e coralli. E adesso ditemi se la descrizione non vi ricorda le collezioni di una coppia di stilisti molto famosi e da qualche tempo molto in disgrazia con il governo di mister Ping, come Luigi Di Maio. Anche cinquanta, sessant’anni fa, c’era chi trovava le pacchiane estremamente affascinanti, esattamente come ci sono influencer che ogni mattina si fotografano in una mise diversa degli stilisti in disgrazia dalle parti delle loro boutique in via della Spiga e Montenapoleone.

 

A Milano elegante è il cerchietto, a Napoli l’abito lungo al ginocchio e scollato, a Parigi il chiodo di pelle nera

Chi decide l’eleganza? Gli arbiter elegantiae, va da sé: da Petronio in poi, un lungo esercito di presunti difensori del buon gusto, spesso rimpannucciati all’ultima moda ma sul coté eccentrico, tipo gilet a quadretti e papillon verde, bastone da passeggio, il tutto corredato dall’invettiva maligna e la battuta pronta come il Gastone di Petrolini, per risultar graditi alle signore nei salotti dove infatti mietono successi e spesso, fra inviti a pranzi, cene e cacce, sbarcano il lunario. L’eleganza è, infatti, argomento da lettura e da intrattenimento, pensate a noi che ne stiamo scrivendo da un’ottantina di righe e non abbiamo ancora saputo darvene una lettura univoca e una risposta precisa. L’Italia vanta fra l’altro una primazia e una supremazia assolute nella letteratura dedicata: anche al netto del Satyricon e dei consigli amoroso-vestimentari di Ovidio, e ben prima del Cortegiano, abbiamo avuto la patristica, le ossessioni di sant’Agostino contro lo sfoggio, le ansie . Di consigli sull’eleganza e invettive contro i costumi eccessivamente appariscenti (o troppo poco, per la classe del soggetto indicato) si sono occupati per secoli abati e cardinali, come il famoso Ercole Gonzaga che, fra un’indicazione e l’altra sullo sfoggio di velluti e sete nella sua Prammatica sul lusso, trovò il tempo di presiedere anche il Concilio di Trento. Il fatto che, per lunghi secoli, sia spettato al capofamiglia vestire la moglie e naturalmente disporre del suo vestiario, magari affittandolo ad altri per matrimoni o feste, spiega almeno in parte per quale motivo, tuttora, i commenti sui social alle classifiche sulle donne meglio e peggio vestite arrivi da uomini: evidentemente, per istinto sopito ma non dimenticato, si considerano ancora i custodi della morale e dell’eleganza femminili.

 

Invece, sfidiamo quasi chiunque, anche per la forza satirica e sovversiva del contenuto, a ricordare chi sia stata Lucrezia Marinella, una delle tante donne battagliere delle Venezia rinascimentale, che per prima, nel 1549, scrisse a proposito della moda e dell’“ornamento” come atto di emancipazione e non di sottomissione al gusto maschile “perché è necessario che la donna, ancorché sia vile, e minima, sia di tali vestimenti ornata, per le sue eccellenze e dignità naturali, che il Maschio come servo e asinello nato per servir meno adorno se ne stia”. L’eleganza, almeno per come la vediamo oggi, e cioè un atto di affermazione personale più che sociale, è in buona parte innata e molto poco ha a che vedere con l’estrazione, basti pensare al caso di Kate Moss nata a Croydon che vent’anni fa ha reso imprescindibili le sottovesti indossate con gli stivali di gomma per milioni di ragazzine sulle quali, invece, lo stesso abbinamento risultava volgarissimo. Si può educare, affinare, che dev’essere stato un esercizio quotidiano, matto e disperatissimo per una quantità di stilisti di cui vedi la famiglia seduta a bordo passerella e ti immagini quali e quanti sforzi debba aver fatto per portare tutta quella bellezza a sfilare, quanta fatica, e allora applaudi più forte. Questo per dire, non fosse ancora abbastanza chiaro, che le classifiche di cui abbiamo iniziato a leggere nelle cronache da Versailles sono un puro divertissement. Da leggere per trovarvi altro. Più che altro, una conferma al nostro gusto, ai nostri interessi e alle nostre eventuali antipatie. L’eleganza, comunque la si voglia definire, c’entra sempre nulla.