I pattinatori in un villaggio, Hendrick Avercamp, c. 1610 (dett.)

Chiedilo al tabarro

Corrado Beldì

Il record battuto, lo stufato d’asino, la pancia del re di Tonga e una stoffa che ha storie infinite da raccontare. Cartolina dalla Tabarrata Nazionale di Oleggio

Ha un piccolo ricamo interno con scritto Menkoviyc, deve essere il nome del suo primo proprietario, forse un soldato serbo di quelli che Ivo Andric incrociava passeggiando per Belgrado, perché di notte il Danubio ha lo stesso colore, è di un blu così scuro che vorresti tuffarti dentro, ti circonda di morbidezza e tiene un caldo da non credere, come entrare con un gesto in un’altra stagione. L’importante è non sbagliare il colpo d’ala e girarlo bene sulle spalle e non lasciare nemmeno un varco al vento freddo dell’inverno. Me lo ha regalato un amico che non c’è più ed è un vero tabarro, è tagliato al vivo e ha una lunga storia da raccontare. Basta chiedere e mettersi in ascolto, un vero tabarrista lo sa bene, se gli risparmi una guerra in trincea un buon tessuto può passare da un secolo all’altro, dal trisavolo al nipote, la taglia non conta e non passa mai di moda perché il tabarro protegge per una vita.

 

Se gli risparmi una guerra può passare da un secolo all’altro, la taglia non conta. Non passa di moda perché protegge per una vita

Ci potrei attraversare i Balcani a piedi ma stasera mi bastano trecento metri, devo arrivare soltanto fino in piazza perché quest’anno la Tabarrata Nazionale arriva al mio paese e il ritrovo è verso sera sotto il vecchio campanile di Oleggio. La prima volta eravamo a Parma, davanti all’Enoteca Tabarro, un nome per niente casuale perché l’osteria è per tutti, proprio come il tabarro, per signori e contadini e se arriva un forestiero lo abbraccia e infatti ha abbracciato pure me e una sera davanti a un lambrusco ci ho trovato Camillo Langone, scrittore e tabarrista, non andiamo d’accordo su nulla e infatti siamo diventati amici. E’ stata sua l’idea di un raduno nei giorni della merla, speriamo sempre nella neve o almeno che si geli, altrimenti col tabarro ci si squaglia. Quella volta eravamo in sei e avevamo fatto la sfilata fino a Piazza Garibaldi e poi tanto vino e pane e salame perché il tabarrista mangia sano e soprattutto non si arrende mai. L’anno dopo a Casalmaggiore eravamo in diciannove, a Vicenza in quaranta e ora imboccando il corso ho la stessa tensione di quando aspettavo i miei amici per la festa dei diciott’anni, sarà venuto qualcuno o finirò per ritrovarmi tutto solo nel bel mezzo della piazza?

   

Farei pure marcia indietro ma il mio Menkoviyc mi dice di non desistere. Lo ascolto, faccio un bel respiro e tiro dritto. Tanto stamattina due amici li ho convinti, mal che vada saremo in tre e non sarà di certo imbarazzante, questi portici nei secoli di tabarri ne hanno visti a migliaia, i contadini ci venivano per il mercato del bestiame, il più grande di tutta la provincia, con larghi mantelli e un cappello a punta aguzza fatto apposta per scolare meglio l’acqua. Li chiamavano capeguzz, a quei tempi gli ombrelli non si usavano, portavano vacche e conigli, cavalli e galline, scambiavano uova e formaggi e bidoni di latte, riempivano le osterie, brindavano e facevano affari nel freddo più tagliente che si potesse immaginare. Se porti il tabarro sei protetto da tutto, la sciarpa non serve e hai sempre le mani libere per nascondere a tutti un coltello o una rosa o magari una bottiglia di vino. Giro l’angolo dei portici e mi ricordo di aver dimenticato quel nebbiolo sulla porta di casa ed è un vero peccato, sarebbe stato perfetto per un brindisi, c’è un bel gruppo di tabarri e pure qualche flash e qualcuno che applaude come fosse a teatro. Abbiamo battuto il nostro record. Cinquantaquattro intabarrati. Un numero insperato. Tutto merito di Roberto Dal Bosco, il direttore marketing della nostra piccola grande impresa, fosse da Tom Ford lo avrebbero già licenziato ma in questo caso i risultati hanno del miracoloso.

 

Promuoverlo è un casino, non hai le maniche, non hai le tasche, non puoi metterti lo zaino, non sai dove appenderlo, in bici rischi la vita

Promuovere il tabarro è un bel casino, non hai le maniche, non hai le tasche, non puoi metterti lo zaino, non sai dove appenderlo, in bicicletta rischi la vita e in auto si chiude sempre nella portiera, è perfetto giusto per andare in carrozza eppure noi tabarristi non ci arrendiamo, possiamo superare ogni sconfitta e poi c’è Roberto che martella sui social, al telefono e per strada. E’ una missione di quelle che lo esaltano, come combattere il buddhismo o conquistare la Crimea, anni fa partimmo in direzione Ucraina con la mia freccia d’argento, per di più modello cabriolet, roba da farcela smontare pezzo a pezzo, non ricordo nemmeno se stavamo puntando alla mitica scalinata o alle ragazze di Odessa, attraversammo i Carpazi su tre ruote fino al più grande rave di tutte le Russie, lui girava con una specie di tabarro estivo, la musica elettronica bucava la sabbia e i costumi da bagno, se non avessimo trovato il paradiso a Kazantip, forse saremmo arrivati fino a Vladivostok. Buono per la techno, per il telemark a Cortina, per le novizie da collegio e per la prima alla Scala, di modi per portarlo ne ho visti tanti ma il più elegante tra i tabarristi è sempre Sandro Zara, è lui il vero principe del tabarro, stasera è tutto coperto di guanaco, era un taglio da sei metri, un regalo di Sergio Loro Piana e lui ci ha ricavato una ruota. Inizia a raccontare una vecchia canzone, “porto il mantello a ruota e fo il notaio”, a smentire chi pensa che il tabarro sia un abito contadino, infatti lo portano tutti e pure io che non so nemmeno seminare l’insalata e il vicesindaco del paese e molti altri arrivati da mezza Italia con mantelli d’ogni foggia, ma ciascuno con una storia da raccontare, come quelli che Jacopo Colombo e il suo gruppo di volontari hanno messo in esposizione al Museo Civico Etnografico di Oleggio.

  

Sfiliamo in parata per le strade del paese e in un attimo ci arriviamo. Un museo come questo in tutto il Piemonte non esiste e infatti ci vengo appena posso, è in cima alla collina e c’è una vista mozzafiato sulla vallata. Se il cielo è terso si scorge pure la Madunina e ha terreni tutto attorno e chissà se un giorno torneranno ad essere vigneti, coltivati col vitigno autoctono che è stato ritrovato proprio qui. Devo convincere il sindaco, il prete, il postino, l’assessore regionale e tutti quelli dei negozi sulla piazza e pure Claudio Motta, che lo dica a tutti quelli che entrano da lui in cappelleria, vuoi mettere un vino col nome del paese e fatto proprio nelle cantine del museo? Sarebbe il luogo ideale, in dieci anni l’hanno ribaltato come un calzino, riceve quattromila donazioni all’anno, mobili e oggetti che raccontano le vite del passato come la vecchia macelleria Bellora, tutta in marmo e col toro in rilievo. Da bambino restavo incantato davanti ai colpi di mannaia e a quei pezzi di carne appesa, come ora davanti alla giubba rossa di Bernardino Balsari, garibaldino di Oleggio, mi basta sfiorarla per sentirmi acconto a lui a Calatafimi e poi alla lettera ai genitori di un bimbo bocciato in prima elementare per sei anni di fila. Ogni volta la leggo da cima a fondo, la maestra poveretta era disperata, mica c’erano i crediti formativi, a quei tempi la seconda te la dovevi guadagnare, come le stanze del museo, che sembrano non finire mai. Ci sono tabarri ovunque e si aggirano tra i mobili della vecchia osteria e nella lunga galleria con gli abiti del passato, dove Jacopo racconta che avrebbe voluto esporre un raro esemplare del Settecento, fatto solo di paglia, a ricordarci che la prima protezione dell’uomo furono le fresche frasche. Da sempre si faceva con quel che c’era, anzi forse a far vincere il Sapiens sul Neanderthal fu proprio la capacità di farsi un buon tabarro, per resistere al freddo del nord e conquistare l’Europa.

  

Due anni fa un anarchico e un borbonico si misero a litigare per una frase di Mazzini e sarebbe finita a coltellate se non li avessimo divisi

Dovrei chiederlo a Guido Barbujani, è il mio genetista preferito da quando mi ha spiegato che siamo tutti africani e poi ho una passione per i cognomi con almeno una j da qualche parte. Magari gli mando un whatsapp ma certo sarebbe meglio una vecchia cartolina, ne hanno a centinaia sparse nelle vetrine, in una si vedono tre uomini che sfidano l’inverno col tabarro. Su un tavolo del museo hanno esposto i pezzi rari, la mantellina di un soldato della Prima guerra mondiale, ha ancora la terra incrostata su un lato, era di una canapa così sottile che si direbbe fabbricata dagli austriaci apposta per farci perdere e poi il tabarro in fustagno del Pirìn ad Sán Duná, è la maschera cittadina e io lo amo da sempre perché tentò di uccidere il duca Barnabò Visconti coi suoi tapìt avvelenati. Sono biscotti così piccoli che potrei mangiarne cento e per fortuna li fanno soltanto a Carnevale, ogni volta risvegliano il mio orgoglio repubblicano e vorrei attaccare manifesti con l’edera ovunque. Forse stasera farei meglio a star prudente, il gruppo dei tabarristi è infestato di monarchici e vorrei tanto evitare guai, due anni fa un anarchico e un borbonico si misero a litigare per una frase di Mazzini e sarebbe finita a coltellate se non li avessimo divisi. Siamo pochi ma assortiti, monarchici, federalisti, anarchici, repubblicani, liberali, fascisti, atei, maoisti, mazziniani, cattolici, radicali, socialisti e pure guelfi errabondi come GiPi Dei Malvisi che vive sull’Appennino e si muove soltanto a cavallo e sa fare muri a secco così perfetti che tra mille anni saranno ancora in piedi, o come Giuseppe Manzoni, il fratello del grande Piero, ogni anno spero che si presenti con una merda d’artista e invece mi devo accontentare dei suoi favolosi baffi appuntiti e della sua passione per i formaggi. Puntualmente all’aperitivo si butta sulle caciotte affumicate di Laura e Luigi Giordano, sono fatte col latte delle mucche del Parco del Ticino e si sposano a meraviglia coi vini di Enrico Crola, l’unico produttore oleggese. Un bicchiere della sua vespolina a quest’ora ci voleva proprio. Se non fossimo in ritardo per cena, me ne farei almeno altri due.

  

L’uscita dei tabarri dal museo è un trionfo di colpi d’ala, come uno stormo di aironi al decollo. Cerco anch’io di contribuire alla coreografia ma preso dalla foga quasi acceco una ragazza che mi segue. Sarò pure tabarrista ma devo perfezionare il gesto. Viene meglio al Torrigiani col suo colbacco di scoiattolo e alla Pascucci che è arrivata fresca fresca da Roma ma il premio sincronia va ai coniugi Pongolini che avvolgono il tabarro all’unisono e allungano il passo verso l’osteria. Manca solo don Natale, il parroco più intabarrato che ci sia, l’ho chiamato due volte e ho pure insistito, ma stasera si apre lo scurolo di San Gaudenzio con tanto di cardinale e compagnia cantante e peccato non averlo al tavolo con noi, soprattutto per le storie in dialetto che ci potrebbe raccontare. Al Gatto e la volpe sarebbero perfette e poi qui gli appigli non mancano, ogni piatto è un racconto, il salame della duja, la bagna càuda col cardo gobbo e il cotechino fatto a due passi da qui e poi ovviamente la nostra paniscia e lo stufato d’asino con polenta e per finire in bellezza una gran fetta di bunet. Tanto col tabarro la pancia non si vede, anche se certo vorrei evitare gli eccessi del re di Tonga, aveva un cuoco novarese e a forza di mangiar paniscia aveva superato i duecento chili e da un giorno all’altro si era messo a stecchetto e aveva imposto la dieta ai suoi sudditi per decreto, un’ora di ginnastica obbligatoria per tutti, ma almeno con vista sul Pacifico.

 

Via Facebook/Civiltà del Tabarro


   

Acqua color smeraldo e sabbia cristallina, Tonga sarà pure uno sballo ma non potrei mai sopravvivere senza tabarro e poi ogni anno alla tabarrata c’è una bella premiazione, un elenco di premi deciso dal Direttorato per la Civiltà del Tabarro, è la cupola dei tabarristi e l’attesa è spasmodica perché quest’anno hanno aggiunto quattro nuove categorie. Il premio poesia va a Roberto Zaniolo e Sergio Zaminato che compongono rime tabarristiche e le declamano in pubblico senza paura, il premio distanza a Paolo Verni arrivato da Francoforte, il premio libertà a Camillo Langone e il premio fedeltà, due alamari di San Marco, al mio concittadino Eugenio Cerrato. Porta l’ultimo tabarro tagliato a Oleggio, nel 1961 dal vecchio sarto Giovanni Borné, doveva iniziare il liceo e sua madre lo spedì a farsi cucire un cappotto e lui invece, entrato in sartoria, “mi faccia un tabarro!” Potrebbe raccontare la storia del paese, una reliquia che Eugenio indossa d’inverno sotto i portici dove c’era l’osteria di famiglia, di quei posti che quando chiudono è come tagliare via un pezzo del mondo. A volte di notte mi capita ancora di sognare la sua cassata multistrato gusto crema, torroncino, cioccolato, panna, pavesini, nocciola, cioccolato, vaniglia, in sessant’anni ne avranno sformate centomila, era una scusa per andare al Bar Orlando e passarci un pomeriggio intero. Arriva il momento del “Tabarrista dell’anno”, il premio più atteso a “colui che più d’ogni altro si è distinto per la propaganda della Cultura del Tabarro”. Guardano tutti Roberto che ha la busta sigillata col nome, certo ci vorrebbe una valletta, la tensione si taglia col coltello, rullo di tamburi, apre, legge, alza gli occhi, “Corrado Beldì”! Questo non me lo aspettavo. Con lo Zero d’oro e il Novarese dell’anno ho completato il mio triplete.

 

Mi sa che stanotte non lo tolgo neanche per dormire, è tempo di brindare ma niente champagne, si va di bonarda e croatina

Zara in persona mi allunga il premio, me lo mette sulle spalle, mi regola il collo, è un incredibile tabarro modello Ruzzante, come il drammaturgo patavino, è tutto per me, è morbido e avvolgente e ci hanno pure ricamato le iniziali, un ton sur ton a prova di daltonico e poi è l’ultimo in tessuto orsetto a garzo corto, l’hanno ritirato dalla produzione come la maglia di Michael Jordan. Il mio Menkoviyc starà morendo di gelosia. Sono commosso. Mi sa che stanotte non lo tolgo neanche per dormire, è tempo di brindare ma niente champagne, da queste parti si va di bonarda e croatina e alla fine stappiamo pure un bel Boca di Silvia Barbaglia, la mia vignaiola preferita è sempre lei, disbosca colline nell’Alto Piemonte per piantarci vigna, sedici anni di lavoro e di attesa per tirar fuori una bottiglia, è tenace e coraggiosa, un grande esempio per noi tabarristi che inseguiamo il prossimo bicchiere anche quando cominciamo a vederci doppio. Di tabarri appesi in effetti ne vedo due ed è proprio così, il Menkoviyc e il Ruzzante mi aspettano affiancati e sono pronti ad accompagnarmi a casa, d’ora in poi dovrò chiedere a entrambi e ascoltarli uno alla volta e speriamo non si mettano a litigare, quando passo dalla piazza non c’è nessuno, l’orologio in cima al campanile segna l’una e trentadue e il termometro è ben sotto lo zero ma è bello passeggiare sotto i portici, continuerei tutta notte e starei fuori fino all’alba, d’altra parte nel tabarro si sta al calduccio e figuriamoci con due, uno sopra l’altro, praticamente è come stare su una spiaggia di Tonga, più che un cambio di stagione è come vivere sempre d’estate.

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