LaPresse

un nuovo genere ludico

Ambiguità, omissioni e nessuna abiura. Così Fratelli d'Italia gestisce il rapporto con l'ingombrante passato

Giorgio Caravale

Incapaci di proporre una narrazione alternativa, a parte il goffo tentativo di ascrivere Dante Alighieri alla destra italiana, Giorgia Meloni e i suoi uomini hanno provato a rivisitare la propria Storia, mettendo in campo una strategia tutta difensiva, fatta di piccoli grandi silenzi, reticenze e zone d'ombra

Dopo un decennio segnato da una politica senza Storia, dominato da partiti (e leader politici) che percepivano la Storia come un ingombro del quale fare volentieri a meno, ora, con la destra di Fratelli d’Italia al governo, sembra di essere tornati alla vecchia rassicurante abitudine di una politica che saccheggia e manipola la Storia. In fondo si dirà, i partiti l’hanno sempre fatto, anche e soprattutto nella cosiddetta Prima Repubblica, nulla di nuovo sotto il sole. E tuttavia, nel recente e ripetuto uso politico del passato da parte di Giorgia Meloni e dei suoi uomini (è il caso di dirlo) ci sono elementi di novità che vale la pena iniziare a mettere a fuoco. 

 

Nella Prima Repubblica si utilizzava il passato per dimostrare la primazia del proprio partito nel ciclo storico. La Storia e il suo studio erano funzionali a restituire a cittadini ed elettori il senso dell’indispensabile ruolo svolto dal partito nel panorama politico italiano e mondiale. Lo fece naturalmente il Pci di Togliatti (e quello di Berlinguer) con l’obiettivo di presentare la vicenda del Partito comunista italiano come l’inveramento della parte migliore della storia nazionale e internazionale dei decenni precedenti. Ma lo fecero, in modi solo parzialmente diversi, anche il Psi e la Dc. Il primo, il Partito socialista italiano, promosse, anche e soprattutto per contrastare i rivali comunisti, la causa di una Storia intesa come un grande, onnicomprensivo contenitore dal quale attingere gli ingredienti utili alla costruzione di una tradizione politica funzionale alla battaglia politica del presente.

La seconda, la Democrazia cristiana, seppur meno interessata alla Storia e più in generale al mondo della cultura (non foss’altro perché l’occupazione dei posti di governo e la copertura offerta dalla Chiesa cattolica gli garantiva di per sé un ampio consenso culturale) finì per condividere la stessa visione teleologica della storia avallata dalle grandi ideologie di matrice marxista, promuovendo il progetto di una “nuova cristianità” di ispirazione maritainiana (e montiniana), anch’esso figlio di una concezione deterministica della Storia secondo la quale gli uomini possono prevedere e dominare gli eventi nel loro sviluppo di lungo periodo. 

 

Con la cosiddetta Seconda Repubblica venne il tempo dell’“invenzione della tradizione”, per usare una nota definizione di Hobsbawm e Ranger. Le forze protagoniste della stagione politica post-Mani pulite usarono la Storia per legittimare il nuovo corso agli occhi dell’opinione pubblica. Gli eredi del Pci, travolti dal crollo del comunismo ma sopravvissuti, unico partito della Prima Repubblica, allo scandalo di Tangentopoli, si trovarono nella scomoda posizione di dover ripensare radicalmente la propria storia, stretti tra la necessità di respingere il passato (comunista) e l’istinto di inventarsi nuovi riferimenti storici. Gianfranco Fini si assunse il compito, con Alleanza nazionale, di cancellare le tracce di un ingombrante passato e di scrivere una pagina inedita della storia della destra italiana, intraprendendo un percorso tanto radicale e repentino quanto solitario e incompreso. L’esigenza di costruirsi un passato ex novo fu condivisa a maggior ragione dalla Lega Nord di Umberto Bossi, impegnata allora nell’affannosa ricerca di miti fondativi capaci di dare una qualche (illusoria) prospettiva storica alla lotta secessionista padana contro il centralismo romano.

 

E fu condivisa naturalmente da Silvio Berlusconi che, soprattutto nella prima fase della vicenda politica di Forza Italia, si diede un gran da fare per inventare la genealogia di una tradizione politica conservatrice liberale di massa che il nostro paese non aveva mai conosciuto. Per qualche anno provò a mettere insieme icone della destra liberale anglosassone quali Margaret Thatcher e Ronald Reagan con figure di riferimento del mondo cattolico come il fondatore del Partito popolare italiano, don Luigi Sturzo, presentato per l’occasione come l’eroe dell’antistatalismo. Quando capì che creare dal nulla un passato inesistente era un’operazione difficile da comunicare al suo elettorato, Berlusconi scelse di demolire il passato degli avversari: nel vuoto di Storia che accompagnò la nascita e la crescita del suo partito-azienda l’anticomunismo divenne così l’unico possibile collante identitario. 

 

Il decennio successivo, il secondo del XXI secolo, è stato il decennio dei partiti senza Storia. Dopo aver utilizzato e manipolato la Storia in ogni modo e misura, la politica realizzò che poteva fare a meno della Storia, anzi scelse convintamente di metterla da parte. Era stato Berlusconi, sempre lui, ad anticipare i tempi, segnando il passaggio dalla Storia allo storytelling: dall’ambiguo e artificiale tentativo di inventare una cultura politica coerente con la vicenda storica del paese all’esaltazione della biografia individuale del leader politico, la sua naturalmente, nel caso specifico. Quella “visione privatistica della storia”, come è stata definita, fatta di “aneddoti” familiari e personali e “dettagli insignificanti”, centrata sulla figura del self-made man venuto dall’imprenditoria ed entrato nel teatro della politica italiana per liberarla dai soffocanti lacci che ne ostacolavano lo sviluppo, mise una pietra tombale sulla visione didattico-pedagogico della Storia propria della classe dirigente politica della Prima Repubblica, aprendo definitivamente la strada alla nuova stagione della politica senza Storia. I partiti italiani non concepirono più la Storia come un serbatoio dal quale estrarre liberamente gli ingredienti atti a legittimare la propria identità politica presente e futura, bensì come un fastidioso ingombro del quale fare volentieri a meno. 

 

La forza politica più capace di interpretare il sentimento e l’orizzonte mentale del cosiddetto presentismo fu senza dubbio – nell’Italia del XXI secolo – il Movimento 5 stelle. La sistematica esclusione, nel processo di costruzione identitaria del Movimento di Beppe Grillo, di qualsiasi cenno alla vicenda storica italiana divenne il carattere distintivo di una forza che rifiutava consapevolmente il peso della Storia per aderire più agevolmente ai cangianti umori del presente, in altre parole alle mutevoli preferenze dei cittadini-consumatori. Anche la leadership di Matteo Salvini dimenticò e fece dimenticare ogni ragione storica legata alle origini della Lega Nord, convincendo gli elettori che il suo partito avrebbe riportato l’ordine all’interno di un paese minacciato dalla crescente ondata migratoria verso le coste italiane: solo in un clima di allegra amnesia collettiva, la Lega del secessionismo padano poteva affermarsi nelle regioni del Centro e del Sud Italia come una delle principali forze politiche nazionali. Anche Matteo Renzi, l’ex sindaco di Firenze asceso alla guida del Partito democratico nel 2013, incarnò lo spirito di una politica vissuta all’insegna di un eterno presente, di una politica che guardava solo all’oggi e non chiedeva spiegazioni al passato. L’azione politica si contrappose nella sua visione alla dimensione della memoria storica, presentata all’opinione pubblica come un fardello destinato ad appesantire l’attività di governo, un peso di cui sbarazzarsi per agire più velocemente e più liberamente.

 

Con Fratelli d’Italia si è aperto oggi un nuovo capitolo del tormentato rapporto tra la politica italiana e la Storia. Tutt’altro che disinteressata alla vicenda storica nazionale, Giorgia Meloni è intervenuta spesso, nel corso del suo primo anno di governo, su temi storici. Non era così scontato. Con l’ingombrante passato che si ritrova alle spalle, una vicenda inevitabilmente segnata dall’eredità del fascismo e dall’isolamento vissuto dal Msi nell’ambito dell’arco costituzionale italiano della Prima Repubblica, la destra italiana era potenzialmente candidata a dimenticare, rimuovere, azzerare la storia più o meno recente, a proseguire in altre parole la tradizione dei partiti senza storia. Giorgia Meloni invece ha scelto una strada diversa. Troppo intrecciata la sua storia politica personale con quella del Msi e del Fronte della Gioventù per mettere a tacere il rumore del passato. Il tentativo, esercitato sin dagli anni della lunga campagna elettorale che ha preceduto la vittoria alle politiche dello scorso settembre, è stato quello di provare a riscrivere alcuni dei nodi più delicati della nostra storia repubblicana, sovvertendo la narrazione che la destra, a suo modo di vedere, sarebbe stata costretta a subire negli ultimi decenni.

L’unico ostacolo rispetto a questo generoso tentativo è che non c’era granché da sovvertire. Il lavoro degli storici ha consolidato negli ultimi decenni ricostruzioni e interpretazioni oggi difficilmente confutabili, riscrivendo le pagine di storia che erano da riscrivere, a cominciare dalle foibe e dal clima di scontro e violenza dell’immediato secondo Dopoguerra. La destra dunque non aveva nulla da rovesciare, il paradigma vittimistico non ha trovato terreno fertile. E Giorgia Meloni e i suoi uomini si sono ritrovati a praticare così un nuovo genere ludico, la Storia per omissioni. Incapaci di proporre una narrazione alternativa, a parte il goffo tentativo di ascrivere Dante Alighieri alla storia della destra italiana, hanno messo in campo una strategia tutta difensiva, fatta di piccoli grandi silenzi, reticenze, ambiguità.

 

Con un duplice obiettivo: evitare di dare ragione ai propri interlocutori di sinistra pronunciando parole che altri avrebbero voluto sentirgli dire, e alimentare una zona d’ombra, diciamo pure una zona di ambiguità atta a lasciare libertà di manovra a simpatizzanti ed elettori, oltre che alla classe dirigente con la quale Meloni si ritrova a governare. In nome di questa strategia, si può scrivere un’autobiografia senza mai nominare la parola fascismo e il sostantivo fascista, brutti epiteti destinati a comparire, oggi come allora, solo sulla bocca dei propri avversari politici. Si può parlare della persecuzione degli ebrei come di qualcosa di incomprensibile, un avvenimento astorico accaduto in Italia “durante il fascismo”, e non per esempio a opera del regime fascista. Si può raccontare che il razzismo, tranne rare eccezioni, non ha nulla a che fare con la storia della destra italiana. Si possono ricordare nostalgicamente i camerati missini degli anni Settanta e Ottanta come campioni di pace e mitezza, vittime sacrificali della violenza prevaricatrice dei loro oppositori politici senza menzionare il clima di scontri violenti che vide il Fronte della Gioventù e il Msi in prima linea. Si può ricordare la strage di Bologna del 2 agosto 1980 come una strage “per terrorismo”, senza fare menzione alcuna delle inchieste giudiziarie e delle ricerche storiche che hanno accertato in modo inoppugnabile le responsabilità neofasciste. Si può celebrare il 25 aprile senza mai pronunciare la parola antifascismo. Si può celebrare la Costituzione repubblicana come una costituzione afascista. Si può ricordare la resistenza senza mai pronunciare la parola partigiano (sostituita per l’occasione dal sostantivo patriota). Si può esaltare la resistenza cattolica e quella monarchica citando la componente comunista solo quale esclusiva responsabile della spirale di odio e di esecuzioni sommarie seguita alla fine del fascismo. Si può esaltare il ruolo del Movimento sociale italiano come traghettatore di milioni (sic) di italiani nella Repubblica parlamentare senza citarne minimamente le trame neofasciste e l’anima nera. Si può celebrare la giornata della liberazione dai nazifascisti esaltando Jan Palach, l’eroe della resistenza praghese contro il regime sovietico. Si può ricordare la strage delle Fosse ardeatine come un evento organizzato dai nazisti ai danni degli italiani senza menzionare le pesanti responsabilità dei vertici del regime fascista. Si può insomma giocare con la Storia sul filo di silenzi, reticenze, ambiguità, omissioni.  

 

E’ al riparo di questa zona d’ombra che il presidente del Senato La Russa, dopo aver celebrato la costituzione afascista e festeggiato il 25 aprile a Praga davanti alla statua di Palach, può pensare di figurare come un grande statista semplicemente chiarendo a favore di stampa che “la Costituzione italiana nasce proprio dalla sconfitta della dittatura”. Ed è grazie a questo perimetro di ambiguità che i tanti De Angelis di cui FdI è pieno si sentono in fondo liberi di definire come una grande truffa le acquisizioni della magistratura e della storiografia sulla strage di Bologna, e i (pochi, ma non pochissimi) nostalgici del fascismo possono continuare a coltivare, più o meno apertamente, i loro vecchi rituali nonostante la formale “incompatibilità con qualsiasi nostalgia del fascismo” affermata dalla stessa Meloni nella sua nota lettera al Corriere della Sera del 25 aprile scorso. 

 

Nel momento in cui l’esperienza di governo la induce a scelte limpidamente europeiste e atlantiste lontane anni luce dalle proposte politiche avanzate negli ultimi anni, nell’attimo stesso in cui si trova a rinnegare il proprio passato su molte delle questioni al centro dell’agenda politica, dalla questione climatica all’eredità trumpiana all’alleanza sovranista, nell’istante stesso cioè in cui si trova a rimangiarsi gran parte di quanto urlato negli ultimi anni di campagna elettorale, Meloni evita in ogni modo di rinnegare anche la storia politica del proprio partito: specie la storia di quelli, e non sono pochi, che ai tempi di Fiuggi e poi ancora anni dopo, etichettarono Gianfranco Fini come un traditore, lei per prima. Se solo a sinistra non si abusasse del termine fascista per bollare come tale ogni episodio di violenza, razzismo, antisemitismo, con il serio rischio collaterale di non riuscire a contrastare queste degenerazioni in modo efficace, sarebbe probabilmente più facile smascherare questo esercizio di Storia per omissioni praticato ormai quotidianamente dalla destra di governo.

Di più su questi argomenti: