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“Caccia allo Strega”: una letteratura buona per gli adattamenti tv

Mariano Croce

Nel suo ultimo libro Simonetti analizza la trasformazione del romanzo contemporaneo: "La capacità di connettersi, ottenere follower, scatenare dinamiche virali"

"Mai come nel secolo scorso – scriveva Pietro Citati nel 1959 – gli scrittori si lamentarono della sorte a cui erano costretti dai tempi: isolati e abbandonati, incapaci di stabilire rapporti con una società indifferente o nemica”. Senza dubbio, l’Ottocento, benché secolo del romanzo, è stato un periodo inclemente con chi praticava letteratura. Eppure, quanti in Italia nel secondo Novecento si fecero carico di un’eredità tanto importuna – per fare pochi nomi, Flaiano, Gadda, Landolfi, Manganelli, Ortese, Piovene – non potrebbero vantare una maggiore contiguità con la vita mondana. D’altro canto, secondo Giorgio Manganelli, quale che sia l’epoca, la letteratura deve sempre assicurarsi una ragionevole solitudine: un debito di vita sociale a proteggere i confini intangibili della libertà di scrittura e una veggenza mai troppo diluita nello spirito dei tempi. Certo, c’erano anche scrittori, come Moravia e Pasolini, che in modi assai diversi consumavano nozze ambigue col grande pubblico, ma la letteratura rimaneva un luogo in cui le parole del linguaggio quotidiano si rigeneravano per tornare poi tra la gente cariche di nuove tinte. Quella letteratura, d’altro canto, poco si preoccupava di rassicurare il lettore sulla solidità delle sue competenze cognitive e morali: il libro, fatte eccezioni non rare ma neppure troppo diffuse, rimaneva una macchina complicata, un ordigno pronto a esplodere per generare universi o quantomeno produrre spaesamento. Scrittrici e scrittori rimanevano in semi-clandestinità coatta, non tanto per naturale sfuggevolezza, quanto perché la loro opera non era fatta per raccontare l’ennesima storia che già tutti conoscono. La letteratura, quella buona, aveva a che fare col sacro e col misterico più che con gli happening della dolce vita.

Ancora nel ’900 la letteratura, quella buona, aveva a che fare col sacro e col misterico più che con gli “happening” della dolce vita

Sarà per tale ragione che questo côté letterario poco mondano aveva più d’una riluttanza nei confronti della letteratura virtuosa e pedagogica, dai risvolti affettivi, pronta a farsi carico del miglioramento dell’umanità: non c’è peggior letteratura di quella umanistica, che prende contenuti dalla vita per restituire alla vita, e che quindi rimane pienamente ancorata al mondo di cui vuol essere specchio fidato. No: i libri rimangono oggetti ambigui, mai solidali con l’ambiente, capaci se necessario di mentire e di colludere col nemico, toccati da un istintivo orrore verso chi stila le classifiche dei nobili di spirito e dei corrotti. Ma dacché si poteva pensare alla letteratura in termini tanto arrischiati, di anni ne sono passati forse troppi; e, al netto di nostalgie fuori tempo, bisogna riconoscere che il panorama letterario è cambiato e con esso la società, se si vuol usare una parola molto seria. Senza entrare in un dibattito che ha attraversato tutto il Novecento, vale a dire se le arti siano un riflesso della storia oppure sappiano almeno in parte intagliarla, c’è d’ammettere che nei primi decenni di questo millennio i libri hanno instaurato un rapporto del tutto nuovo col mondo circostante.

 

In "Caccia allo Strega". Anatomia di un premio letterario (Nottetempo 2023), Gianluigi Simonetti diagnostica con acume e brio una parabola che, se nel Premio Strega trova la sua acme, invero sembra segnare il destino della letteratura tout court. Istituito a Roma nel 1947 da Maria Bellonci e Guido Alberti, il Premio vanta da sempre la nomea di pontefice e censore della buona scrittura, viatico per l’ascesa al Parnaso della cultura italiana. Benché notissime siano le polemiche sull’influenza poco velata delle major sulla scelta dei vincitori, ben al di là dei litigi di cortile lo Strega riesce a fare da lente sociologica per comprendere il rapporto che sussiste tra i libri e il “ceto medio” colto. E quanto in effetti succede lascia sgomenti: quella che è un’impressione generalizzata ma soffusa a proposito di una letteratura compiacente, sorniona, amante delle soluzioni facili, sorda ai drammi troppo impegnati, sospettosa dei termini desueti, parca con gli aggettivi fuori paniere, severissima sui periodi arborescenti – ecco, questa impressione generalizzata ma soffusa si scopre un fatto suffragato da innegabili evidenze. I premi letterari e i dati di vendita attestano che, negli ultimi vent’anni, ha trionfato la letteratura sedicente virtuosa e pedagogica, che fa convergere il proprio interesse di bottega – vendite, traduzioni, adattamenti per cinema e televisione – con il perseguimento di tutte le virtù umaniste e politicamente corrette.

L’impressione generalizzata di una letteratura amante delle soluzioni facili, sospettosa dei termini desueti, si scopre un fatto evidente

Per tracciare l’inquietante parabola, Simonetti si esercita in un doppio carotaggio: analizza senza sconti né ire funeste alcune delle opere che hanno ottenuto il Premio Strega nei prima anni Duemila e quindi testa l’ipotesi che se ne trae mediante l’esame rapido delle cinquine finaliste degli ultimi anni. In questa sede, tuttavia, non rileva tanto lo Strega in sé, né le singole opere prese in esame dall’autore, quanto la tesi di fondo che, messa per iscritto, desta un misto di sconforto e rassegnazione e invita a un’arrendevole presa d’atto. La letteratura, oggi, è “nobile intrattenimento” (p. 111). L’aggettivo non è scelto a caso, né il sostantivo vuol essere giudicante: nobile, perché aspira con sincerità e affettazione a un qualche documentabile rapporto di parentela con la letteratura illustre del Novecento; intrattenimento, perché non vuole disturbare, e tantomeno turbare. I libri di oggi garantiscono un impiego del tempo libero senza dissipazioni, dedicato a un’attività di lettura che consenta al pubblico di identificarsi, riconoscersi, vivere una storia che potrebbe essere quella di ciascuno, e al contempo, mediante questa sorta di viaggio iniziatico, sviluppare sentimenti di solidarietà e decoro morale. Insomma, libri che a un tempo rassicurano ed emendano, nella convinzione che si sia tutti della stessa pasta, tutti calati nello stesso dramma umano, di cui i libri non sono che una variazione.

Il romanzo contemporaneo ha da  intercettare il giornalismo-spettacolo, deve raccontare storie che educhino senza porsi su piedistalli o cattedre

In testi come Via Gemito di Domenico Starnone, Non ti muovere di Margaret Mazzantini, La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano, ad avviso di Simonetti, non si cerca tanto un compromesso tra registri, uno cioè che si riveli all’altezza della lirica d’antan e uno capace di parlare a chi non ha il tempo di consultare il dizionario. Il compromesso è di diversa natura, vale a dire “quello fra un’idea tradizionale e ancora novecentesca di ‘alto’ e […] una domanda di arte o cultura ordinaria: contemporanea, certo, e di facile accesso, ma accuratamente e visibilmente distinta dal puro consumo, dalla promozione omogenea e non segmentata che contraddistingue il mass marketing” (p. 135). Insomma, la letteratura di livello non si consegna al mondo del consumo, ma cambia scientemente natura, si adatta con calcolo e dedizione a una realtà sociale che va mutando. Né è morta l’aspirazione lirica di chi scrive né è scaduta la cultura media di chi legge, ma è cambiata la sede naturale della letteratura, assieme ai mezzi della sua fruizione, e quindi il modo in cui il libro scolpisce le proprie forme. Il romanzo contemporaneo ha da essere pronto per la televisione intelligente e il cinema colto, capace di intercettare il giornalismo-spettacolo e incline alla divulgazione sociologica e politica. Insomma, deve raccontare storie che insegnino, educhino, ammaestrino, senza con ciò porsi su piedistalli o cattedre, ma per via di un linguaggio diretto e veloce.

Se tutto questo scoraggia (chi scrive forse prima di chi legge), non si intravedono soluzioni se non il palliativo di dosi massicce di passato

Non sorprende pertanto che, in questo declivio, seguano quei testi di narrazione ibrida che, con riscontrato successo, combinano la forma romanzesca con la testimonianza storica. I “saggi non-saggi” che dicono d’affondare le mani nei dolori dei vinti senza però assumersi del tutto la responsabilità della storia. Esempi ne sono "M. Il figlio del secolo" di Antonio Scurati e "Le assaggiatrici" di Rosella Postorino, ma assieme a loro quei numerosi romanzi, più propensi alla fiction (come le opere di Janeczek, Levi, Balzano e Petrignani), eppure avvolti da un senso di ripugnanza per il ritorno dei fascismi di ogni colore e quindi pronti a suonare la squilla di una resistenza morale ai malanni nostrani. Beninteso: non che tale intento non sia lodevole. Il problema, secondo Simonetti (e chi scrive concorda), è che questo istinto salvifico prende la mano e si fa nota dominante: si difendono valori effettivamente non negoziabili (l’antifascismo, l’antirazzismo, la giustizia di genere, la lotta all’omofobia) senza però indagarne i risvolti, le ambivalenze, le inconsapevoli opacità. Si racconta un mondo già comodamente diviso tra buoni e cattivi, rispetto al quale è del tutto superfluo, oltreché seccante, restituire sfumature che obbligherebbero a un sovrappiù di riflessioni ed esegesi.

 

Il libro della letteratura d’oggi ha da rispecchiare quanto già esiste, nel modo in cui esiste, senza adulterarlo – semmai camuffandolo un poco - così da permettere a chi legge di riconoscerne i connotati e di riconoscersi in esso. Storie di padri assenti, madri oppressive, figure androgine, corpi che si trasformano, il tutto in chiave spiccatamente intimista, in una liturgia che consacra la vita privata di singoli capaci di rappresentare tutti. Abolita ogni sperimentalità, nel nome di una democraticità linguistica cavalcata da quotidiani e magazine. Sicché, anche il linguaggio della letteratura più elevata adotta giocoforza un protocollo al ribasso: “Registro realistico piatto, a bassa temperatura formale” (p. 27), con vistosi cenni di complicità ai codici dei media e dei social, assieme a fumetti, serie tv e musica pop.
Questa torsione “democratica” – per cui, si badi, la democrazia è intesa quale dominio della maggioranza – satura l’estetica social e smart delle opere letterarie, al punto che il riconoscimento e il prestigio non dipendono più da qualità intrinseche, ma dalla capacità, appunto, di connettersi, ottenere follower, scatenare dinamiche virali. Il vero successo, ragiona Simonetti, non consiste oggi nell’ottenimento di premi, men che meno nella riscossione degli emolumenti, ma nella pressoché immediata “traducibilità” del libro: trasposizione in lingua (che richiede un italiano paratattico pronto a un rapido e indolore scodellamento in vernacoli strutturalmente diversi), adattamento cinematografico e televisivo (che impone scansioni ritmiche senza scossoni, in cui i piani-sequenza siano già predisposti), ideazione di podcast (che presuppone la divisione in macro-gruppi tematici connessi ma tendenzialmente autonomi). Insomma, altro che i sottoscala in affitto del pieno Ottocento o i cenacoli angusti di metà Novecento. Per scrittrici e scrittori, il terzo millennio pare sia l’epoca del riscatto e della gloria, benché ottenute al prezzo di un sacrificio che ricorda da vicino i tormenti allucinati di Jack Torrance in Shining, il film decisamente più realistico su cosa davvero comporti la fatica dello scrivere. Come suo figlio Danny, chi rimane affezionato alle letture meno affabili e più pericolose s’intrattiene perlopiù con i morti, quelli citati in apertura fino alle ultime generazioni di maestri dimenticati, come Arbasino, Celati o Testori, che hanno avuto poco a che fare con la letteratura premiata. Certo, c’è da trarre ancor oggi un po’ di respiro grazie a eccezioni che pure esistono e non vanno dimenticate – autori che rifuggono un’ermeneutica univoca e hanno in spregio tutto quanto ammala la letteratura, come ad esempio Benati, Cavazzoni, Mari, Ranieri, Siti, Vasta e molti altri, che rispetto però alla cerchia degli stellati sono pochi. Né si può dire che, al di là di chi può vantare tirature da sei zeri, il campo letterario sia la tavola imbandita di Trimalcione. Ma tutto sommato la diagnosi vergata in Caccia allo Strega sembra molto solida: oggi letteratura può essere, o meglio, deve essere un modo di dire il reale, la vita di tutti, senza troppe complicazioni, con una struttura sintattica snodabile, eppure mai troppo appiattita sulla lingua di chi letterato non è. Una forma educata, che rispetta (talora vezzeggia) l’ignoranza altrui e mai ne urta la suscettibilità. 

 

Se tutto questo scoraggia (chi scrive forse prima di chi legge), ahimè non si intravedono soluzioni a breve termine, né forse medio, se non il palliativo di dosi massicce di passato, persino il più polveroso. Proprio l’aprile di quest’anno segna i cento anni dalla nascita di Cristina Campo, la più intransigente delle firme del Novecento, che nella cultura ufficiale vedeva l’inferno in terra (lei che credeva al paradiso in forme anche un po’ troppo risolute) e che, come unica terapia, predicava l’isolamento e la selezione rigorosissima di letture ed amici. Davanti alla rottura di ogni argine e al trionfo di una lingua all’osso, converrà forse mutuare un suo squisito rituale apotropaico: “Bruciar sandalo e cinnamomo, come Defoe durante la peste, per tener lontano da me tutto ciò che si fa e si dice nelle lettere italiane (…). Pacchi di libri arrivano (…) – ed è come se arrivassero pacchi di cibi guasti, pezzi di carogna”.

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