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Lettere

Come si combatte l'immigrazione illegale? Costruendo legalità

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Il consiglio benevolo di Giuliano Ferrara, dunque, al Partito democratico è quello di arrendersi una volta per tutte all’idea di essere una forza laburista, tradizionale nell’impianto socialdemocratico, ma capace di dare voce e rappresentanza a pezzi di società che l’esperimento politico fin qui tentato – fanno, però, 15 anni a ottobre, fischia – non ha saputo o potuto interpretare, lasciando spazio a populismi e destracce. Anche se, exploit di Scholz a parte (che pure ha i suoi guai, eccome), non che i laburisti europei se la passino un gran che bene. Pacificarsi, allora, nell’amalgama malriuscito e ripartire da dove mai iniziammo (l’adesione ai socialisti europei è arrivata a metà percorso, non ne fu fondativa)? Oppure accasarsi placidamente dove già stiamo, rinunciando a qualche refolo (quello liberale, quello repubblicano o popolare) che, pure, ci scompiglia dalla nascita? Ma no che non si torna indietro, direttore, non fosse altro perché così va la freccia del tempo. Democratici – liberali, aggiungo io – e socialisti già lo siamo sui documenti di identità, custodiamo quell’aria cazzona e imbronciata da fratelli maggiori un po’ noiosi, da mariti o mogli da cui tornare dopo una notte brava, vuoi una tazza di latte? E la nostra anomalia – quella di non essere più o di non essere mai stati quel tipo di partito laburista – ce la portiamo dietro dalle origini, difetto di fabbrica, ahinoi che ne andiamo fieri. Alla fine siamo una terza via, e non lo dico per il mio personalissimo e generazionale crush per gli anni eroici di Clinton e Blair (a proposito, Ricolfi qualche giorno fa usava il loro fallimento contro i terzopolisti di oggi, e con qualche ragione; da democratico rivendico: naufragium feci, bene navigavi) ma perché siamo fatti così, basti vedere idee, proposte, classi dirigenti, territori, sensibilità, culture e scazzi. “Sappiate che non sono mai partito”, graffiava Caproni. Ma noi partimmo, direttore, caro Ferrara, partimmo. Teniamocelo caro questo Pd. Cordialità. 
Filippo Sensi


 

Al direttore - Caro Cerasa, ho deciso di scriverle dopo la lettura in anteprima del suo pezzo su destra populista e immigrazione. Pezzo che non è riuscito a gettare luce euristica su uno snodo che mi pare intorbidare quel tema da anni. Perché l’aggettivo “regolari” compare una sola volta nel testo, quasi casualmente, pur essendo il suo stile vistosamente anaforico? Come se il nodo fosse risolto a monte, quando non lo è. E lei non fa menzione alcuna a come lo sarà o potrebbe esserlo. Intende suggerire, manconianamente, che ogni profilassi è irricevibile e che lo scoglio dell’irregolarità va aggirato considerando tutti regolari? La ringrazio anticipatamente per aver contribuito ad una più estesa comprensione.
Massimo Prestifilippo


Il modello Manconi è affascinante, ma confesso di riconoscermi più nel modello Minniti, quando si parla di immigrazione. E la formula di Minniti è perfetta. Come combattere l’immigrazione irregolare? Costruendo legalità e combattendo l’illegalità. Ovverosia: tutto ciò che è legale è da sostenere e incentivare; tutto quello che è illegale, e non verificabile, quando si parla di immigrazione, è da disincentivare e contrastare. E dunque. Corridoi umanitari per svuotare immediatamente i centri dei migranti. Un canale diretto, verso l’Europa, per chi ha diritto alla protezione internazionale, sotto l’egida delle Nazioni Unite con la gestione dell’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati. Rimpatri volontari assistiti verso i paesi di origine, gestiti dall’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, agenzia collegata all’Onu. Rispetto all’utilizzo della parola irregolari invece, caro Massimo, credo che l’ambiguità di fondo vera sia quella coltivata dalla destra nazionalista. Una destra che naturalmente sostiene di essere contro l’immigrazione irregolare, ci mancherebbe, ma che da anni, ogni volta che affronta il tema, sceglie di strizzare l’occhio al proprio elettorato estremista semplificando il proprio messaggio con una formula che certamente avrà sentito anche lei: “Fermare l’immigrazione”. Senza irregolari. Si è mai chiesto perché? Grazie e un caro saluto a lei.


 

Al direttore - Dopo Andrea Riccardi, anche Ernesto Galli della Loggia torna sulla questione dell’irrilevanza dei cattolici nella politica italiana. Per gli storici, il rapido  oscuramento della presenza cristiana dopo la lunga fase in cui la Dc  occupava una posizione di inamovibile centralità, è un fenomeno sorprendente e solo parzialmente spiegato. Perché, dopo la crisi degli anni Novanta e la polverizzazione della Dc, i cattolici non sono riusciti a trovare una nuova voce, a elaborare una diversa capacità di intervento, adeguata ai tempi? La causa, per Galli, è da rintracciare nella scomparsa di una identità forte, riconoscibile, e soprattutto unificante. La fluidità che ha investito ogni area del vivere, producendo la volatilità delle appartenenze ideologiche e politiche, la precarietà delle relazioni, l’instabilità del  lavoro e perfino una nuova mutevolezza del corpo sessuato, non ha risparmiato nemmeno la Chiesa, nonostante l’autorevolezza della figura del Papa.


L’ultimo tentativo di far convergere i politici cattolici, ormai collocati in schieramenti diversi, sulla difesa di alcuni princìpi comuni, i cosiddetti valori non negoziabili, si è risolto, secondo Galli, in un fallimento. La stagione ruiniana, insomma, non ha prodotto i frutti sperati, e nonostante gli evidenti successi ottenuti, non è riuscita nel suo obiettivo più ambizioso. Ma è proprio l’incomprensione di quella stagione che ha prodotto l’attuale condizione di irrilevanza e smarrimento.  La novità introdotta da Ruini, che riportò la  Chiesa  al centro del dibattito pubblico, fu l’individuazione di un rapporto con la modernità, anzi con la postmodernità, del tutto nuovo: non il disperato e fallimentare tentativo di inseguire il cambiamento cercando di adattarvisi, non l’opposizione dura e pura di chi vedeva nella scienza e nella tecnologia un nemico da battere, ma una elaborazione concettuale autonoma e all’avanguardia, una analisi precisa sulla nuova manipolazione dell’umano, che avrebbero portato, come lo stesso Galli scrisse quando il cardinale Ruini lasciò la presidenza della Cei, “a un universo non più anticristiano, ma radicalmente postcristiano”; una prospettiva minacciosa non solo per i credenti, ma “per l’intera dimensione umanistica della tradizione culturale occidentale”. I valori non negoziabili sono stati spesso interpretati solo da un’angolazione etica, senza comprendere fino in fondo il senso della rivoluzione antropologica, forma aggiornata e assai più temibile delle vecchie utopie della perfettibilità che hanno devastato il Novecento, perché manipola i corpi, tocca la nascita e la morte. Il risultato di questa incomprensione è stato da una parte una polarizzazione dottrinaria a vocazione minoritaria, dall’altra l’illusione che i nuovi diritti individuali fossero conciliabili con un orizzonte di fraternità cristiana e la consapevolezza del limite umano. Oggi che la prospettiva transumana è più chiara, e che gli effetti perversi della rivoluzione antropologica sulla convivenza civile si possono misurare attraverso i dati (primo tra tutti, il crollo demografico) è forse possibile ripensare al passato per trarne qualche suggerimento utile, non per cercare di arginare cambiamenti già avvenuti, ma per aprire nuovi spazi. Sono convinta, come Riccardi, che è dal sociale che i cattolici (e tanto più i politici cattolici) possono ripartire, dalla necessità di riparare le contraddizioni che la società liquida ha creato. Bisogna ripartire dalle donne, dalla potenza simbolica del materno, dal bisogno di  affidamento reciproco, che permette di tornare a guardare verso l’alto.

Eugenia Roccella

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