Sergio Mattarella (foto Ansa)

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Mattarella dice di no al mandato bis. Lo fece anche Napolitano

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Ma dopo un anno di lockdown anche il settennato al Quirinale non dovrebbe recuperare? 
Giuseppe De Filippi 

“Il presidente Giorgio Napolitano ha da tempo pubblicamente indicato le ragioni istituzionali e personali per cui non ritiene sia ipotizzabile una riproposizione del suo nome per la presidenza della Repubblica”. Era il  21 febbraio 2013. Due mesi dopo Napolitano sarebbe diventato, per la seconda volta, presidente della Repubblica, per poco meno di due anni, il tempo giusto per avviare le riforme istituzionali. 


 

Al direttore - “Essendo la velocità della luce maggiore di quella del suono, alcune persone possono apparire brillanti prima di sentire le stronzate che dicono” (Albert Einstein).
Michele Magno



Al direttore - Provate a pensare per un attimo a quale profondo cambiamento si potrebbe apportare al sistema della comunicazione del nostro paese se potessimo lasciarci alle spalle i lunghi anni di una lottizzazione in cui valeva solo l’appartenenza – anni nei quali si giunse a nominare alla presidenza della Rai un intellettuale che si vantava di non guardare la televisione, riuscite a immaginare l’azionista di un grande giornale che metta a capo della sua azienda una persona che non ha alcun interesse per l’informazione o una casa di produzione cinematografica che si affidi a qualcuno che non ha mai messo piede in una sala? Tutto questo non accadeva agli albori della tv ma nel 1996, quando il servizio pubblico, la televisione commerciale e la nascente pay tv si facevano largo sui televisori delle nostre case. La storia della televisione pubblica è costellata di follie: a cominciare dagli anni Cinquanta, quando il direttore generale dell’epoca (Rodolfo Arata) pensò bene di indicare al pubblico ludibrio i programmi delle tv commerciali americane definendoli “facili ed evasivi”: come poteva immaginare che alcuni decenni dopo la stessa Rai si sarebbe avventurata tra i corridoi di “Collegi” e “Caserme”? Una cosa dobbiamo riconoscerla: almeno in quegli anni il confronto era sui contenuti. Con la riforma degli anni Settanta tutto cambia, finisce il monopolio democristiano e parte la fame di occupazione da parte di chi era stato fino ad allora escluso. Da lì in avanti conterà solo l’appartenenza, senza alcuna considerazione per competenze e professionalità. E’ possibile cambiare questa mortificante situazione in cui si trova la nostra principale azienda culturale? Se non vogliamo che la televisione si trasformi in un puro oggetto di modernariato, dobbiamo mettere alla sua guida professionisti capaci di guardare non al domani, ma semplicemente all’oggi. Ci sono le giovani generazioni che ricercano i prodotti audiovisivi su nuovi terminali, che non sono i televisori, ma i pc, gli smartphone, i tablet. Un fenomeno che fa parlare di tv liquida, come si parla di società liquida e di democrazia liquida. Ma attenzione, se non riusciremo a governare questi processi, sarà difficile salvarsi dal naufragio. Chiunque sarà chiamato a guidare il servizio pubblico si troverà alle prese con un problema di difficile soluzione: coniugare qualità dell’offerta e ascolti, assumere un ruolo di traino dei consumi culturali del paese e rincorrere i dati Auditel. Un’antinomia che renderebbe schizofrenica qualunque gestione. Un’incoerenza che parte dalle origini, quando i governi democristiani del Dopoguerra, con il placet del Partito comunista, decisero di costruire un monopolio radiotelevisivo che non lasciasse spazi di mercato a possibili concorrenti. E’ arrivato il momento di pensare al “sistema paese”, se non vogliamo demandare l’intero consumo culturale delle nuove generazioni agli “over the top”, media company globali che non conoscono i limiti legati ai sistemi di distribuzione tradizionale, come la tv terrestre e satellitare. Netflix ha superato i 200 milioni di abbonati, Dinsey+ è oltre i 100 milioni, 150 milioni sono gli abbonati di Amazon Prime Video. Ma queste sono solo le punte di un iceberg destinato ad avanzare. Se pensiamo di arginare il ciclone che avanza, aggrappandoci ad antiche posizioni, frutto di altre ere geologiche, sarà bene riflettere. La pandemia ha insegnato agli italiani l’uso dello streaming e su questo non si tornerà più indietro. Se non lo si vuole capire, auguri: “The Times They Are a-Changin’”.
Tullio Camiglieri, candidato al cda Rai 


 

Al direttore - Nel pezzo apparso ieri sul vostro giornale c’è una frase sul Movimento 5 stelle che, chi ha riferito al giornalista, non ha potuto che riferire in maniera errata. Le idee di un partito non possono mai ripugnarmi in particolar modo quando esprimono l’intenzione di un rinnovamento. Un’altra cosa è però aderirvi. Per un magistrato significherebbe violare l’imparzialità. Non sono mai stato né a favore né contro rispetto al movimento politico. Ho condiviso molte proposte in tema di giustizia mentre ho criticato alcune scelte – in materia penitenziaria e di prevenzione antimafia – che non mi apparivano in linea con le proposte. Per un dibattito leale tra addetti ai lavori, ci tengo a precisarlo. Cordialmente. 
Sebastiano Ardita

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