Mafia Capitale dimostra che il grillismo viene prima dei grillini

Al direttore - Le foto umbre: vasto programma.

Giuseppe De Filippi

 


 

Al direttore - Dicono che senza il “pentimento” nessun mafioso ergastolano dovrebbe poter usufruire di premi penitenziari. Dimenticano di rilevare, però, che legare il solo criterio della collaborazione alla possibilità di ottenere qualche permesso ha prodotto negli anni una vera e propria “fabbrica di pentiti” disposti a raccontare ai pm qualunque cosa, qualunque bugia, pur di ottenere uno straccio di premio. Basta scorrere l’elenco dei presunti pentiti usciti di galera nonostante le loro patacche, avallate da fior di magistrati che appioppavano il timbro “riscontrato” su ogni loro panzana. Soprattutto quando questa coinvolgeva il potente di turno fornendo, così, al magistrato la possibilità di finire sulle prime pagine dei giornali.

Luca Rocca 

 

A proposito di mafiosità. C’è un dettaglio molto curioso che riguarda non la storia da lei segnalata ma ancora la storia di Mafia Capitale e che ha a che fare con una particolarissima condizione in cui si è trovata negli ultimi anni la totalità dei giornali. Il fatto è questo: per ragioni diverse tra loro, in questi anni, sia i quotidiani di sinistra sia quelli di destra hanno dato conto dell’inchiesta su Mafia Capitale senza mettere mai in discussione quello che questo giornale ha messo in discussione fin dal primo giorno, ovvero la mafiosità della corruzione romana. Non lo hanno fatto i giornali cosiddetti progressisti, che come da tradizione hanno sposato la linea dell’accusa incarnata da una procura. Non lo hanno fatto i giornali così detti borghesi, che come da tradizione hanno sposato la linea dell’accusa incarnata da una procura. Non lo hanno fatto i giornali così detti sfascisti, che come da tradizione hanno sposato la linea dell’accusa incarnata da una procura. Ma non lo hanno fatto neppure i giornali della destra pre o post salviniana che presi dalla foga di dover dare una connotazione mafiosa al famigerato sistema di potere dei partiti non amati non ha fatto nulla per cercare di capire se le tesi dell’accusa fossero fondate sulla realtà oppure no. La storia di Mafia Capitale ci dice molte cose. Ma ce ne dice forse una su tutte: per capire come nasce la grillizzazione dell’Italia non è necessario osservare la storia del M5s ma è sufficiente osservare la storia dell’informazione italiana, oggi trasversalmente in lutto per non aver più tra le mani un giocattolo chiamato Mafia Capitale.

 


 

Al direttore - In riferimento all’articolo di ieri di Marianna Rizzini nell’inserto “Roma Capoccia” vorrei ribadire nel modo più assoluto che da anni non mi occupo di Roma e che non ho la minima intenzione di occuparmene nel futuro. Non ho candidati da proporre né da promuovere. Né ho strategie da mettere in campo. Le dirò anzi che da cinque anni non ho neppure più casa nella Capitale; città che ho tanto amato ma verso la quale sento oggi una totale estraneità. La prego di tenerne conto. Se vuole può verificare con tutti i protagonisti della politica romana e avere conferma da loro di questa mia posizione fermissima. La prego di tener conto di queste mie poche righe con la consueta correttezza e intelligenza Sua e del Foglio. Con amicizia.

Goffredo Bettini

 


 

Al direttore - In attesa di conoscere le indicazioni che emergeranno dal Sinodo sull’Amazzonia ormai in dirittura d’arrivo, stando a quello che si è letto e sentito l’impressione è che anche in quest’occasione sia scattato implacabile un meccanismo ben collaudato quanto semplice: crei un caso partendo da una situazione particolare per farlo diventare un problema generale e poter aver così il pretesto per “ammodernare”. Qualche esempio recente? Unioni civili, divorziati risposati, suicidio assistito, e ora gli indigeni dell’Amazzonia a corto di preti. Esempi accomunati dal fatto che se vai a vedere i numeri parliamo di cifre da prefisso telefonico internazionale. Qualcuno ha mai visto code di omosessuali fuori dai municipi o di divorziati risposati fuori dalle chiese o di richiedenti l’eutanasia negli ospedali? Io no. E il motivo è presto detto: perché parliamo, appunto, di fake-emergenze. Con l’Amazzonia è lo stesso; mettendo da parte per un momento il non banale dettaglio, come ha ricordato il card. Müller, che l’eucaristia non è un diritto che qualcuno possa reclamare, la verità vera dei tanto osannati popoli indigeni (e qui a Roma ne abbiamo avuto un qualche assaggio) è ben diversa e lontana da come la racconta certa narrativa. E’ altrove che risiedono coloro che sono interessati a smantellare la disciplina del celibato e consentire alle donne l’accesso al sacerdozio et similia, illudendosi che una chiesa più aperta e meno rigida possa fermare l’emorragia di fedeli in atto, con conseguente tracollo delle finanze di parrocchie e diocesi, in primis della malmessa (tutto attaccato) chiesa tedesca. Oltre ai limiti, teologici e pastorali, del documento preparatorio che ha instradato i lavori dell’assise sinodale, limiti sui quali già è stato detto molto, il problema più grave resta la miopia di una chiesa che prendendo spunto da una questione di ordine pastorale ma che tuttavia riflette una crisi che pastorale non è essendo primariamente di fede – ossia la scarsità di clero per celebrare l’eucaristia – si prospettano innovazioni e cambiamenti che non solo sarebbero la classica toppa peggiore del buco, ma avrebbero l’aggravante di creare un precedente le cui conseguenze devastanti andrebbero ben oltre i confini dell’Amazzonia. Non solo. A rendere il tutto ancora più grottesco, il fatto che sono proprio quelle stesse realtà alle quali ammiccano i novatori di ieri e di oggi – leggasi: le comunità protestanti in Germania – la miglior prova della miopia di una simile operazione nella misura in cui lo sanno pure i muri che il protestantesimo in Germania è in crisi (per usare un eufemismo), e questo nonostante del celibato manco l’ombra. Vorrà dire qualcosa? Una prova ulteriore della confusione che c’è oggi nella chiesa; una chiesa che primariamente a causa di una lettura dell’Incarnazione, prevalente in certi ambienti, che sembra dimenticare che il Figlio di Dio è sì vero uomo ma anche vero Dio, e che legge l’Incarnazione come se l’unione del divino e dell’umano fosse in qualche modo già salvifica di per sé (sarebbe interessante approfondire se e in che misura in tale prospettiva trova ancora posto l’opera redentrice di Cristo, ma non è questa la sede), si traduce in un approccio troppo pragmatico alle questioni, rischiando di ridursi sempre più a una realtà umana, troppo umana, accanto ad altre realtà umane. Anche no, grazie.

Luca Del Pozzo

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