Profumo di 2011. Dove porta il disinteresse di Salvini per deficit e debito

Le lettere al direttore Claudio Cerasa del 15 maggio

Al direttore - Di Maio dice che spread sale per Salvini. Invidioso, un balcone e pareggia.

Giuseppe De Filippi


    

Al direttore - Ho letto che Matteo Salvini ha voluto movimentare la giornata di ieri con una frase che dovrebbe forse svegliare un po’ dei sonnambuli italiani: “Sforare il vincolo Ue deficit/pil del 3 per cento? Non si può, ma si deve. Il 26 si vota per l’Europa. E’ fondamentale che gli italiani ci diano una mano a cambiare questa Europa mettendo al centro i diritti e il lavoro. Se servirà infrangere alcuni limiti del 3 per cento o del 130-140 per cento, tiriamo dritti”. Verso un muro?

Franco Frattoni

Grazie a questa frase di Salvini, ieri il differenziale di rendimento fra i titoli di stato a dieci anni italiani e quelli tedeschi è arrivato a 280 punti base. Esattamente un anno fa, il 15 maggio del 2018, quando il governo del cambiamento non era ancora nato, il differenziale di rendimento era a quota 150. In dodici mesi, è raddoppiato il rischio Italia. E al contrario di quello che dice Luigi Di Maio, che ieri ha rimproverato Salvini di far salire in modo irresponsabile lo spread, il problema non è solo che Salvini dica quello che pensa, sapendo poi di poter smentire nel futuro, ma è anche che lo spread italiano non è ancora ai livelli dell’estate del 2011 perché molti investitori sono convinti che dopo le europee il governo cambierà. E se poi non cambierà, e se tutto rimarrà come oggi, se il debito continuerà a salire, se la crescita continuerà a essere quasi a zero, se il governo continuerà a dimostrare disinteresse sul deficit, dovremo mettere in conto un’estate in cui saranno gli investitori a far capire con le buone o con le cattive perché l’Italia non può permettersi di avere al governo una coppia di irresponsabili populisti.


   

Al direttore - Nel vuoto assoluto di proposta europeista che caratterizza questa campagna elettorale, è dal calcio che proviene la novità più interessante. Seppur presentata come una strategia mossa solo dagli interessi economici dei grandi club europei, la proposta dell’Eca, presieduta da Andrea Agnelli, di “europeizzare la centralità del calcio” attraverso tre livelli di competizioni europee collocate nel fine settimana, rappresenta il più straordinario driver potenziale dell’europeismo. L’Eca, abilmente, ha portato Ceferin a condividere una strategia che, oggettivamente, rende ancora più centrale il ruolo della Uefa, istituzionalizzando così il disegno di Agnelli. Potrà sembrare una questione di calcio e soldi, tuttavia, sottrarre rilevanza alla filiera nazionale di un sentiment fondamentale come quello del calcio, per collocarla su una dimensione sovranazionale delimitata all’Europa, smuove montagne che la propaganda politica non sarebbe in grado nemmeno di sfiorare. La storia, naturalmente, si compie con il collateralismo degli interessi economici. Anche Lenin fece la sua rivoluzione arrivando a Mosca con un treno blindato dalla Svizzera che conteneva un lasciapassare politico della Germania e le risorse economiche di chi era interessato ad abbattere l’arcaico potere degli Zar. La battaglia europeista, oggi, non passa più dal dibattito sugli assetti istituzionali, ormai incardinati su un’egemonia degli stati-nazione difficile da scalfire. Il discorso pubblico è dominato dall’idea che ogni sussidiarietà di potere sia impraticabile, tanto quella sovranazionale verso la ormai famigerata “piovra burocratica” di Bruxelles, quanto quella subnazionale di territori come la Catalogna, le cui aspirazioni di potere vengono represse senza mezzi termini. L’europeismo, quindi, è destinato a definirsi attraverso i vissuti dei cittadini (è per questo che l’Erasmus, prima o poi, diverrà una sorta di diritto-dovere interiorizzato nell’obbligo scolastico) e il calcio ne è sicuramente uno dei motori principali. Nella battaglia, appena cominciata, tra coloro che vogliono portare il calcio a una scala europea e coloro che vi si oppongono, determinante sarà la gestione del consenso dei tifosi attraverso l’atteggiamento dei media. In Italia, le forze sono già all’opera: Corriere della Sera e Gazzetta dello Sport, detenuti dal proprietario di un club calcistico medio-piccolo che rischia di essere marginalizzato nel calcio europeo, hanno cominciato a sparare a pallettoni contro la proposta di Agnelli. Un prevedibile diverso orientamento proverrà dalla grancassa mediatica delle televisioni, principalmente interessate a quei diritti televisivi europei che sono ben più competitivi in termini di costo-contatto di quelli nazionali. E’ facile prevedere che, sugli schermi, la proposta dell’Eca diverrà un “paese delle meraviglie” per i tifosi. L’elemento più importante – almeno per chi ritiene ancora che l’europeismo rappresenti una necessità storica – è che un motore fondamentale dei processi sociali come il calcio abbandoni il recinto nazionalistico e si sovrapponga fisiologicamente alla dimensione europea. Insomma, la rivoluzione europeista passa più dalle stanze del pallone che da quelle della politica.

Alessandro Aleotti


   

Al direttore - Caro Cerasa, il passato prossimo ci dice che al nostro paese non sono mancati politici populisti. Lo sono stati, per me, sia Berlusconi sia Renzi. Era “buono” il populismo di quest’ultimo? Dipende. A mio parere era “migliore”. Non strizzava l’occhio alla destra estrema, era filoeuropeo (con qualche sana intemperanza), non sognava nemmeno di uscire dall’euro. Suppongo che, dovendo scegliere, sarebbe stato con Macron, non con i gilet gialli. Sono d’accordo con lei quando afferma che l’opposizione è grigia, troppo ordinata. Alla razionalità dovrebbe aggiungere colore, imprevedibilità.

Lorenzo Lodigiani

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