Foto Imagoeconomica

Lo spread ha trasformato l'Italia in un caso di studio mondiale

Alberto Brambilla

Oltre quota 290. Gli accademici internazionali s'interrogano sulla sostenibilità del debito italiano e sulla sua ristrutturazione. Bel guaio

Roma. Le preoccupazioni per la sostenibilità del debito dell’Italia sono molto più alte di un anno fa, come evidenziato dall’aumento dei rendimenti dei titoli di stato in particolare quelli a breve scadenza. Matteo Salvini ha aumentato queste preoccupazioni giovedì quando ha detto che non avrebbe avuto problemi a deviare sistematicamente dalle regole del bilancio dell’Unione europea. Lo spread è arrivato a toccare i 290 punti (ha chiuso a 284), ai livelli di quattro mesi fa a segnalare nervosismo tra gli investitori. Le tensioni sono ingiustificate, dice il ministero dell’Economia, e motivate dalle prossime elezioni europee.

   

Tuttavia la continua sfida senza precedenti alle regole di bilancio di Bruxelles e la mancanza di volontà di ridurre il secondo debito più alto dell’Eurozona riaccendono una discussione accademica sullo studio di una ristrutturazione del debito italiano. L’ipotesi di tagliare il valore dei titoli di stato oppure di allungarne le scadenze svalutandoli non riguarda un dibattito tra investitori, ma tra studiosi.

   

L’Italia è diventata a tal proposito un caso di studio, sarebbe la più grande operazione di ristrutturazione del debito nella storia. Un esercizio suggestivo. In caso di un avvitamento della crisi con un aumento dello spread ai livelli del 2011 (il doppio di oggi) il ricorso al Fondo salva stati (Esm) sarà possibile per soccorrere solo gli stati che sono in grado di dare garanzie agli altri paesi membri che i conti siano in ordine, il debito sia ridotto e sostenibile. Il meccanismo coinvolge anche gli investitori privati ai quali verrebbero inflitte perdite.

  

A riaprire il caso, il commentatore del Financial Times Wolfgang Munchau il 28 aprile scorso secondo il quale la possibile crisi del debito italiano è una delle maggiori preoccupazioni per l’Eurozona. Negli Stati Uniti il caso italiano è guardato con interesse, al punto che a rimorchio delle suggestioni di Munchau Mark C. Weidemaier (University of North Carolina School of Law) e Mitu Gulati (della Duke University School of Law) hanno ricordato che “gli studenti della nostra classe comune sul debito sovrano hanno lavorato intensamente questo mese su come potrebbe essere una ristrutturazione del debito italiano”, cercando di capire come potesse avvenire in maniera non traumatica.

   

I più corposi contributi al tema sono arrivati negli anni dagli economisti franco-tedeschi nella cui ottica la ristrutturazione serve a indurre alla disciplina i paesi devianti. Con questo spirito quattordici economisti di Parigi e Berlini firmarono un appello di accademici di rango come Pisani-Ferry (Sciences Po), Markus Brunnermeier (Princeton University), Lars Feld (tra i cinque saggi consiglieri di Angela Merkel) e Clemens Fuest (presidente dell’Ifo di Monaco).

  

Gli economisti franco-tedeschi suggerivano una ristrutturazione del debito e l’applicazione ai titoli pubblici detenuti dalle banche di coefficienti di rischio diversificati nel calcolo dei requisiti di capitale al fine di spezzare il legame tra debito sovrano e istituti di credito. Benché non esplicito il riferimento all’Italia, il malato da curare, era chiaro. A criticare la proposta, in quanto rischiosa, per l’Italia fu un gruppo di gruppo di economisti della Luiss (Bastasin, Benigno, Messori, Micossi, Passacantando, Saccomanni, Toniolo) – unici a sollevare una voce critica nel dibattito a trazione franco-tedesca sulla riforma dell’Eurozona, come riportato sul Foglio da Marco Cecchini.

  

La discussione era, poi, atterrata in politica nel giugno scorso quando Emmanuel Macron e Angela Merkel nella dichiarazione congiunta della conferenza franco-tedesca di Meseberg ricordavano che “qualsiasi decisione di fornire il supporto per la stabilità da parte del Fondo (l’Esm) a uno stato membro deve includere l’Analisi sulla sostenibilità del debito”.

  

Ora non c’è dubbio che è tornato un certo interesse dei meccanismi di ristrutturazione dei debiti pubblici in Europa e negli Stati uniti. Gli esperti si esercitano sul tema perché l’Italia è su un sentiero che non appare più stabile.

  

Sul Sole 24 Ore del 30 aprile Lorenzo Codogno (London School of Economics) e Giampaolo Galli (economista Osservatorio conti pubblici Cattolica) avevano notato il riemergere della dibattito. “L’idea che in certe circostanze i debiti pubblici all’interno dell’area dell’euro debbano essere ristrutturati è dunque ancora sul tavolo e forse – speriamo di essere smentiti – ha qualche sostenitore anche nel governo italiano. Ora l’attenzione dei leader europei è interamente assorbita dalla Brexit e dalle elezioni del Parlamento. Subito dopo si tornerà a ragionare del caso Italia”, scrivevano Codogno e Galli avvertendo però che se l’ipotesi uscisse dal dibattito accademico farebbe danni immensi.

  

Gli accademici internazionali spesso si sentono liberi da vincoli istituzionali, e parlano di eventi non necessariamente probabili. L’ipotesi è infatti remota.

  

“La probabilità di ristrutturazione del debito nei prossimi due anni è piuttosto bassa – dice da Londra Jack Allen senior Europe economist di Capital Economics – Ma con il rapporto debito/pil previsto in aumento a medio termine, la probabilità di ristrutturazione aumenterà a causa di una combinazione di debole crescita economica e persistenti deficit di bilancio”.

  

Nella realtà gli effetti sarebbero gravi e potenzialmente peggiori della cura. I titoli di stato sono per la maggior parte in mano a banche commerciali e investitori domestici, tagliarne il valore avrebbe come effetto una perdita in conto capitale enorme per le banche, che andrebbero ricapitalizzate, e un’erosione del risparmio dei possessori di Btp che, di conseguenza, cercherebbero di ricostruire le loro finanze riducendo i consumi, deprimendo la domanda interna. Una conseguenza sarebbe anche la perdita temporanea di accesso ai mercati. La ristrutturazione, quindi, non eviterebbe di fare austerity, ma ci costringerebbe a farne ancora di più. La soluzione per evitare di dare fiato a ipotesi impraticabili, pur a livello accademico, è non fare affermazioni irresponsabili.

Di più su questi argomenti:
  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.