Nebbia sul Millennium Bridge di Londra. Sullo sfondo la St Paul's Cathedral (foto LaPresse)

Stipendi inglesi che piangono: qual è l'effetto Brexit sull'economia britannica

Lorenzo Borga

La scelta del Regno Unito di uscire dalla Ue sta comportando in alcuni settori una riduzione dei salari reali, a causa dell’aumento del costo delle importazioni. In calo anche gli investimenti nella formazione aziendale

Quale è l’effetto della Brexit sull’economia inglese? L’uscita del Regno Unito dall’Unione europea è vissuta come una prova generale per chi sostiene che anche l’Italia dovrebbe seguire l’esempio inglese, uscendo dall’Euro, ma anche da parte di chi vi si oppone. Tre anni fa, quando gli inglesi decisero, nel referendum, di lasciare l’Ue, la scelta galvanizzò i critici della moneta unica; oggi le sorti si sono invertite, viste le enormi difficoltà che parlamento e governo inglesi stanno affrontando per trovare una via di uscita. Nuovi dati, diffusi dal Cep (Centro sulle performance economiche, un think tank associato alla rinomata università London School of Economics) mostrano come la scelta del popolo inglese stia comportando una riduzione dei salari reali, a causa dell’aumento del costo delle importazioni.

    

Quando si affronta la questione con dati e statistiche, la confusione – già dirompente – diventa enorme. Ricordiamo tutti i toni catastrofistici del governo di David Cameron rispetto all’eventualità di un voto per uscire dall’Unione. Un report governativo dell’epoca stimava nel giro di due anni, in caso di voto per il Leave, l’avvento della recessione, 520mila disoccupati e una perdita di 3,6 punti percentuali di Pil e di 2,8 punti sui salari reali. Questi risultati non si sono verificati, e lo studio – insieme agli altri simili, della banca centrale inglese e dell’Ocse – sono stati aspramente criticati da altri economisti.

 

In effetti alcuni dati rilevanti non sembrano mostrare particolari segni di effetti negativi dopo la Brexit. Per ora. La crescita del Pil non ha rallentato come previsto e anzi dal 2016 è rimasta sostenuta al pari di partner come Germania, Francia e Italia, anche se inferiore alla media europea e al passato. Inoltre, la disoccupazione ha continuato il suo trend di decrescita (dal 5 per cento di giugno 2016 al 3,8 rilevato a marzo 2019). Grazie alla svalutazione della sterlina, che il giorno successivo al voto popolare ha subito la più imponente perdita di valore mai avvenuta dagli anni ’70 (circa l’8 per cento sul dollaro in 24 ore), l’export ha guadagnato terreno e gli investimenti esteri – attratti dal più basso valore degli asset inglesi – sono cresciuti. La svalutazione della sterlina non ha però prodotto solo effetti positivi: su questo torneremo dopo. Come scritto dall’Economist, l’economia inglese ha reagito meglio del previsto ma dopo tre anni dal referendum i segnali che la decisione sta iniziando a chiedere il conto stanno diventando evidenti.

  

Infatti, l’incertezza sull’esito delle negoziazioni per uscire dall’Unione europea è elevata: l’indice Epu (Economic policy uncertainty), che misura il livello di incertezza sulle politiche economiche dei governi, nel Regno Unito ha toccato livelli record a ridosso del referendum ed è tornato a crescere nella prima metà del 2019. Secondo un paper pubblicato a fine dello scorso anno, per un quinto degli imprenditori britannici la Brexit rappresenta la più importante fonte di incertezza e il livello di fiducia degli imprenditori è in netta riduzione rispetto agli anni precedenti al referendum, e molto più variabile. Questa condizione di incertezza potrebbe intaccare gli investimenti delle imprese, che infatti si sono ridotti nel corso di tutto il 2018 per poi rimbalzare nel primo trimestre di quest’anno.

  

Ma c’è un ulteriore punto: il potere d’acquisto di una parte rilevante dei lavoratori inglesi con la Brexit è diminuito. L’alta inflazione, che ha raggiunto fino al 3 per cento di tasso di crescita, ha messo sotto pressione i salari reali. Tuttavia, la costante riduzione della disoccupazione – ormai al livello frizionale – ha continuato a sostenere quelli nominali. Ma non per tutti. È il risultato a cui arriva il recente studio del Cep, firmato dagli economisti Costa, Dhingra e Machin. Il cambio del valore di una moneta scatena sempre effetti diretti sulla bilancia commerciale di un paese: se una valuta si svaluta, come accaduto al Regno Unito, il paese potrà godere di maggiori esportazioni affrontando però importazioni più costose. È ciò che è accaduto agli inglesi, che come abbiamo già visto hanno aumentato le esportazioni (il cui valore è incrementato di quasi il 20 per cento dall’inizio del 2016) ma anche il costo, e quindi il valore, delle importazioni (di quasi il 25 per cento). Questa variazione dei flussi commerciali ha portato il paese a un peggioramento della propria bilancia commerciale. Ma non è finita qui: le variazioni del valore di una moneta si ripercuotono anche sul mercato del lavoro, e non solo sul commercio internazionale. I salari reali sono rimasti sostanzialmente stabili dal referendum, nonostante Claudio Borghi sostenesse che avessero raggiunto il “massimo storico” dopo il voto inglese: una falsità come dimostrato nell’inchiesta sulle 271 bufale dei membri del governo pubblicata su Il Foglio. Tenendo conto anche dell’aumento del prezzo delle importazioni, gli effetti della Brexit si rivelano negativi. La perdita di valore della moneta nazionale ha portato alla crescita del prezzo delle importazioni di beni intermedi, vale a dire quelli che vengono utilizzati per la produzione di altri beni e servizi. Questi beni, destinati a essere nuovamente trasformati e utilizzati nelle catene di produzione una volta arrivati a destinazione, coprono circa i due terzi dell’intero commercio internazionale, a dimostrazione di quanto sia diventato dirompente il fenomeno che abbiamo imparato a conoscere come global value chain. Per il Regno Unito, gli effetti sono stati differenti in base ai paesi di provenienza dei beni, per via dei diversi tassi di svalutazione della sterlina nei confronti delle varie monete del mondo. Così a soffrire di più sono stati i settori legati alle importazioni dal Giappone e dagli Stati Uniti, nei cui confronti la moneta britannica ha perso maggiormente rispetto alle altre aree valutarie. Le imprese che hanno subito questi aumenti dei prezzi hanno dovuto ridurre i salari reali dei loro dipendenti, non adeguandoli all’inflazione. I settori che più sono stati colpiti sono quelli della finanza, le assicurazioni, i servizi professionali e di comunicazione. Se infatti scomponiamo il risultato aggregato dei salari reali, scopriamo che in questi settori più colpiti essi sono effettivamente diminuiti rispetto al periodo precedente al referendum. Il grafico mostra proprio questo: la linea grigia rappresenta il trend dei salari reali dei lavoratori colpiti, che è sia minore rispetto al periodo precedente al referendum, sia al trend dei salari dei lavoratori non colpiti (linea nera).

    

D’altra parte l’aumento delle esportazioni non sembra essere stato sufficiente per compensare lavoratori e imprese della perdita derivante dalle importazioni. Come spesso accade, di fronte a una svalutazione monetaria le importazioni crescono più velocemente di quanto non accade alle esportazioni. Infatti i prezzi delle prime aumentano con maggiore rapidità – causando una perdita a imprese e consumatori che le acquistano – rispetto all’aumento delle quantità di export vendute in più all’estero.

   

Lo studio del Cep ha inoltre dimostrato che le aziende inserite nei settori colpiti dalla svalutazione e dunque dall’aumento dei beni e servizi intermedi hanno anche ridotto gli investimenti in formazione aziendale dei propri dipendenti. Questo tipo di spesa è particolarmente importante per aumentare gli stipendi futuri dei lavoratori, incrementando la loro produttività. Si tratta inoltre di un elemento fondamentale per superare le difficoltà che alcuni lavoratori espulsi dal mercato del lavoro riscontrano per via della globalizzazione, in modo da avviare la transizione verso settori più qualificati. Ciò significa che il tentativo di uscita del Regno Unito dall’Unione europea produrrà effetti negativi anche sulla condizione economica futura dei lavoratori coinvolti oggi.

   

In generale, questa ricerca – come altre – dimostra come l’impatto di politiche commerciali di chiusura, nel contesto della globalizzazione matura, possa dimostrarsi anche controproducente. Gli scambi commerciali tra paesi sono ormai talmente sviluppati e le industrie nazionali dipendono così tanto dalle strutture produttive di paesi esteri, che le politiche protezionistiche rischiano di aumentare il costo delle importazioni (come le fonti energetiche, per l’Italia) senza comportare significativi benefici sulle esportazioni. Ne sono un esempio anche i primi risultati delle politiche protezionistiche di Donald Trump, che secondo una recente ricerca hanno sfavorito in particolare le aree geografiche storicamente più propense a votare partito repubblicano. Che sia di lezione ai sovranisti de’ noialtri.

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