Antonio Albanese, photocall della fiction Rai "I Topi" (foto LaPresse)

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Mariarosa Mancuso

Più malinconico che comico, il mafioso secondo l’autore di “Qualunquemente” si è imborghesito

Un sacchetto con il cambio di mutande, una scassata macchina per scrivere, un giaciglio alla masseria per latitare meglio, cicoria e ricotta nella dispensa. Era il colore locale attorno alla cattura di Bernardo Provenzano. All’opposto, le abitazioni sfarzose con gli ori, i tendaggi, i tappeti, le tigri in ceramica dei camorristi. O le magioni degli altri criminali che i soldi li spendono e li sperperano in segno di potere: se non ti hanno ancora arrestato, perché ti chiudi in cella? Fa caso a sé la villa con piscina dei “Soprano”, dove arrivano le paperelle, poi senza preavviso ripartono per altri lidi. Tony ci resta così male che finisce dalla psicoanalista (tutto questo verrà celebrato nel volume “The Sopranos Sessions” di Alan Sepinwall and Matt Zoller Seitz, esce a gennaio per i vent’anni della serie).

      

  

Per la sua casa di mafia, Antonio Albanese piccolo-imborghesice il modello della miserabile masseria trasferendolo al nord. Lascia nello scantinato-bunker soltanto lo zio borbottone: vuole più sale nella pasta, più zucchero nel caffè, ascolta alla radio solo le notizie sul traffico, dipinge banconote da 12 e da 75 euro. Il resto della famiglia – padre, madre, figlio maschio, figlia femmina, zia scommettitrice – sta in villetta. La serie era in onda a ottobre su Rai3, i sei episodi restano disponibili su RaiPlay: accanto al latitante Albanese c’è Lorenza Indovina (già facevano coppia, con altri toni e altri sfarzi e altre mafiosità, nel film “Qualunquemente” di Giulio Manfredonia).

  

   

I topi” – questo il titolo – si muovono nei cunicoli (in casa e anche al cimitero, le tombe si aprono e sotto c’è un mondo, qualcuno si tiene in forma con la cyclette). Si danno appuntamenti scioglilingua “al solito momento, vicino alla salita, in fondo alla discesa”, e guai a invertire l’ordine, o le salite con le discese. Temono le cimici, messe da un falegname che doveva riparare l’anta di un armadio (manco a dirlo dava su un cunicolo) e si è lasciato scappare una frase sospetta, mezza siciliana e mezza milanese. “Vita di merda”, direbbe lo zio nel sotterraneo – altro giudizio sulle cose non ha. Interrotta ogni tanto dalle riunioni della cupoletta (il sotterraneo si allarga per la bisogna). Il boss dei boss sta in barella, muove soltanto gli occhi.

   

  

Antonio Albanese scrive e dirige, oltre a recitare la parte di Sebastiano, capofamiglia che teme di essere arrestato, e dunque vive prigioniero in casa sua. Il tono è più malinconico che comico, il mafioso ha qualcosa di Epifanio, uno dei personaggi che assieme a Cetto la Qualunque e a Alex Drastico sono rimasti nella memoria. Non riesce a cancellarli neppure un film fuori tono come “Contromano” (due emigranti, carini e pulitissimi, da riportare in Africa, “aiutiamoli a casa loro”). L’ultimo Albanese pervenuto, oltre al ricettario “Lenticchie alla julienne”, è il funzionario europeo di “Come un gatto in tangenziale” (con Sonia Bergamasco che in veli di lino candido affronta la periferia romana).

   

 

Le nuove generazioni fanno a modo loro. Il figlio mangia la carne con le posate (si comincia così e si finisce con il pagare le tasse). La figlia si innamora del rampollo della famiglia rivale Calamaru (gentaglia che mangia la carne con le posate, li chiamano “ricchioni”). Il ritmo è scandito dai tormentoni: cunicoli, mezzi di trasporto, genealogie familiari, il fidato spicciafaccende (“o’ stuorto”, ha una pellicceria e porta i capelli ossigenati) che recita poesie. Meglio un episodio per volta, il binge watching svela pezze e cuciture.

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