I’m Dying Up Here

Comici come si deve nel reportage “I'm Dying Up Here”

Mariarosa Mancuso

Anzitutto scordateveli in Italia. Arriva la serie sulla mitica scena losangelina anni Settanta

Moquette che pare rubata all’Overlook Hotel di “Shining” (a disegni geometrici, orrenda, sembra sul punto di animarsi, come accadeva nell’allucinato “Paura e delirio a Las Vegas” di Terry Gilliam). Completi bordeaux con il pantalone a zampa d’elefante. O bianchi con camicia scura, alla Tony Manero. Un palcoscenico e un microfono per il mestiere più difficile del mondo, lo stand up comedian. Il comico di parola: uno che non si traveste, non imita, non ha una spalla a sostenerlo, guadagna l’applauso solo con le battute smaglianti e i tempi comici rodati.

  

Palcoscenico e microfono, anche la parete di mattoni, li ritroviamo identici in “Louie” di Louis C. K., che per fortuna si veste con il maglione. Gli eroi di “I’m Dying Up Here” sono gli stand up comedian degli anni 70, quando le sigarette si potevano fumare anche in televisione: gravitavano su Los Angeles sperando di farsi invitare al “Tonight Show” di Johnny Carson (nel 1972 la produzione lasciò l’East Coast per la West Coast). Pregai spettatori americani, che per questi comici hanno una venerazione unica al mondo, la serie creata da Dave Flebotte va su Showtime dal 4 giugno scorso, il network di “" target="_blank">The Affair, “Twin Peaks”, “Billions”, e “Homeland” (che riprende su Fox con la sesta stagione, in accoppiata serale con la quinta di “The Americans”: le spie hanno più mercato dei cabarettisti in cerca di scrittura).

Si chiamavano Jim Carrey (che produce la serie), Andy Kaufman (mina vagante della comicità che Jim Carrey ha impersonato nel film di Milos Forman “Man in the Moon”), Richard Pryor, David Letterman, Jay Leno. Le loro storie sono raccontate da William Knoedelseder nel reportage “I’m Dying Up Here” (da Public Affairs, casa editrice con un occhio di riguardo per chi ha trascorso gli anni migliori della sua vita facendo reportage e fabbricando libri).

  

Crepacuore e successi, dice il sottotitolo. Il pilot della serie – diretto da Jonathan Levine di “50/50”: un giovanotto che usava la malattia per rimorchiare le ragazze – pende decisamente verso il crepacuore. Clay Appuzzo – poi scopriamo che il vero nome era Calogero – riesce finalmente a conquistare il suo quarto d’ora di celebrità accanto a Johnny Carson. Esce dagli studi televisivi e finisce sotto un autobus. Breve meditazione sul tema “oggi siamo qua e domani chi lo sa”, quando una cartolina suggerisce che sotto le ruote il cabarettista si era buttato con intenzione (quando è steso per terra, siccome siamo negli anni Settanta, un passante si avvicina, si guarda in giro, gli sfila il portafoglio dalla tasca).

“Sono anime tormentate”, spiega Melissa Leo che nella serie è Goldie, titolare del locale dove i nostri fanno apprendistato (il personaggio ricorda e omaggia Mitzi Shore, titolare del “Comedy Store” losangelino). “Pensavo fossero comici” è la fin troppo didascalica risposta. “C’è una sola regola in questo mestiere, e nessuno ha capito quale sia”, teorizza Goldie. Possiamo far ricorso a un’altra che vale in generale, quando si scrivono film o serie tv: le spiegazioni ammazzano il dramma, figuriamoci la comicità.

  

“Posso avere i suoi cinque minuti?” chiede un collega del morto a Goldie che stabilisce i tempi sul palcoscenico. Due ragazzi arrivati da Boston con sogni di gloria si vedono affittare un armadio. La biondina sconta il fatto di essere sexy, arrivata da un paesello “con meno ebrei che a una festa organizzata da Walt Disney”. “Li devi colpire in pancia, rivelando una verità su te stessa”, le suggerisce Goldie. Che si traduce: scordateveli, in Italia, comici così.

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