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Le tre grandi assenze della nostra storia che fanno di noi un paese bloccato

Redazione

Il ribellismo, la fuga dal centro politico, il fastidio del “leader”. Cassese spiega perché non sappiamo decidere e rifuggiamo dalla decisione

Professor Sabino Cassese, a un mese e mezzo dalle elezioni politiche generali del 4 marzo 2018, non abbiamo ancora un governo, e non pare si vedano spiragli. Un paese bloccato?

Volevamo che il popolo scegliesse il Parlamento e, indirettamente, il governo. Ma siamo ritornati a una formula elettorale prevalentemente proporzionale, e, quindi, dobbiamo accettare che il Parlamento prenda il suo tempo per decidere. Se, però, prende questo come esempio della difficoltà di decidere in Italia, ebbene, in tal caso le dirò che c’è un difetto generale insito in quasi tutti i nostri sistemi pubblici. In luogo di avere poteri bilanciantisi, “check and balance”, abbiamo poteri che si rallentano o frenano reciprocamente. Si tratta di un fenomeno che si riscontra dovunque, che riflette nelle istituzioni alcune caratteristiche che direi antropologiche o culturali dell’Italia, e degli italiani soprattutto.

 

Mette insieme istituzioni e società?

 

Esattamente. Le prime riflettono la seconda, e rafforzano alcuni elementi che vi sono dominanti, dando l’impressione di un paese che non vuole essere governato. Ma bisogna procedere per ordine, perché le situazioni sono molto diverse e questa sorta di anarchismo, di fuga dall’autorità (che decide), di insofferenza per un ordine stabilito (sia pur dopo ampia partecipazione), ha numerose varianti, si presenta in modi diversi.

 

Detti lei l’ordine.

 

Comincerei da una delle correnti sotterranee costanti della nostra storia, il ribellismo. L’Italia non ha avuto mai una rivoluzione “seria”, cruenta come quella francese, o incruenta come quella inglese. Ha però sempre supplito con un atteggiamento di protesta, con insofferenza, coltivando il disordine (ricordi le parole di Goethe nel corso del suo secondo soggiorno in Italia). Questo desiderio di non autorità, di non decisione, di rifiuto delle regole (che consacrano le decisioni già prese), è segnalato da tutti coloro che in Italia hanno scritto sul carattere degli italiani (pensi soltanto a Leopardi).

  

Qualche giorno fa, tuttavia, la corrispondente di un giornale tedesco ha lamentato che nessuno protesta seriamente contro le condizioni delle strade di Roma.

 

Proprio per questo lo chiamo ribellismo. Perché non si oppone a una decisione (o non decisione) con un atteggiamento concludente, per appoggiare o proporre una diversa decisione. E’ protesta senza proposta (che comporta a sua volta una decisione). Così è stato durante il fascismo: si borbottava, ci si lamentava. Mussolini ha scritto e detto diverse frasi illuminanti su questo lato del carattere nazionale.

 

E poi viene…

 

La fuga dal centro, il fastidio del “leader” (pensi alla parabola di Renzi), l’incapacità o le difficoltà di “fare squadra”, il paese che non “fa sistema”, la ricerca di sempre nuove vie, senza davvero sperimentare fino in fondo quella imboccata. Pensi soltanto alla questione meridionale, la più grande manifestazione della disunità d’Italia: abbiamo sperimentato tutte le possibili soluzioni, ma lasciandole sempre allo stato di cose effimere: uniformità e difformità, intervento dello stato, intervento delle regioni, intervento dell’Unione europea. Da questo punto di vista, le regioni hanno peggiorato la situazione, perché dànno voce ad ogni più piccola protesta.

 

Ma questo è legato all’anarchismo di cui parlava?

 

Sì, e anche alla scarsa capacità di coalizzarsi. Una decisione si raggiunge più facilmente se nella società, che è un aggregato, si evidenziano comunità, che sono frutto di associazioni, di interessi, di ideali, di religioni, e così via. Pensi alle difficoltà dei politici di oggi nel raggiungere vasti aggregati senza organizzazione: chi ascoltare, come mediare, in che modo trarne orientamenti univoci, se tutte le voci si fanno sentire individualmente? I sogni astratti del giovane Casaleggio (la rete invece dei partiti) prescindono da quella capacità di associazione che è propria delle comunità, puntano ai “visi nella folla” (avrebbe detto David Riesman), anche se noi, nella rete, prescindiamo persino dai volti.

 

Dal dato culturale o antropologico, ritorniamo a quello istituzionale.

 

Pensi ai processi di decisione nelle amministrazioni. Queste sono costruite ad alveare, ma chi vi opera non ha l’ordine delle api. Le procedure vanno tutte in ordine sparso. Di qui la necessità delle conferenze di servizi. Ma anche queste non funzionano, per l’opposizione degli interessi. Quindi, il ricorso al “deus ex machina”, il presidente del Consiglio di ministri, al quale è rimessa l’ultima parola. Ma mi faccia ritornare ai dati culturali di fondo, riprendendo un tema che abbiamo già esaminato.

 

Libero di farlo.

 

Sullo sfondo vi sono le tre grandi assenze della storia italiana. Non abbiamo avuto una riforma protestante, che ha educato altrove alla cittadinanza e alle responsabilità, e fatto nascere lo “spirito del capitalismo” (ricorda Max Weber?). Non abbiamo avuto una vera rivoluzione industriale, che con gli stabilimenti industriali ha insegnato ordine, sequenze, gerarchie (pensi alla catena di montaggio e all’organizzazione del lavoro, all’importanza del fattore tempo nella fabbrica, alla rilevanza del fattore costi). Non abbiamo avuto guerre protratte, ciò che è un bene, ma ci ha privato dell’ordine che deriva dalla caserma. In conclusione, non sappiamo decidere e rifuggiamo dalla decisione. Questo comporta che i tempi diventano irrilevanti, i costi del non decidere secondari.

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