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il pensiero dominante

La legge e il bene comune. Storia di un dissenso

Un saggio radicale del giurista Vermeule ha fatto infuriare i liberali. L’idea della libertà, non la dialettica fra correnti, è il motivo del clamore

Non capita spesso di vedere un articolo – non specialistico – di filosofia del diritto costituzionale americano suscitare tante e tanto furibonde reazioni, specie nel contesto di una devastante pandemia che legittimamente assorbe tutte le attenzioni. E’ successo con un saggio breve, pubblicato dall’Atlantic nel contesto di un dibattito sul futuro della Costituzione, del giurista di Harvard Adrian Vermeule, bersaglio di un moto di indignazione che si è espresso in varie forme, dalle campagne social per disdire l’abbonamento dall’augusto mensile, alle richieste di deplatforming, alle risposte di esperti e neofiti che condannano le pulsioni autoritarie e perfino fasciste contenute nello scritto. I critici lo hanno accolto come un tale concentrato di bestialità da meritare una temporanea sospensione della conversazione sui temi strettamente legati al Covid-19.

 

Prima di addentrarsi nel contenuto infiammabile del saggio, due parole sull’autore. Vermeule è un professore di diritto costituzionale e amministrativo di 51 anni, formato ad Harvard, affinato come clerk di Antonin Scalia alla Corte suprema, inquadrato nella scuola di legge di Chicago e poi ritornato nell’istituzione da cui proveniva, dove gode di ottima stima da parte di colleghi che pure tendono a non concordare con lui su quasi nessun argomento. Definirlo un conservatore è fuorviante. E’ stato descritto come un reazionario, un illiberale, un integralista, un nazionalista cattolico, più di recente anche un “estremista autoritario”, e secondo alcuni la sua visione non è solo impalatabile ma anche pericolosa. E’ naturalmente stato messo nel novero degli intellettuali che hanno dato materiale a Trump e al trumpismo, corrente che senza appoggi esterni sarebbe prossima all’analfabetismo: il contenuto dell’articolo tanto discusso mostra che anche questa accusa è fuori bersaglio. Vermeule è cresciuto episcopaliano, cioè anglicano d’America, e nel 2016 si è convertito al cattolicesimo, diventando ardente promotore di una versione integralista della fede che esprimeva con lingua affilata e ampio sfoggio di una solida impalcatura culturale sul suo profilo Twitter, liberamente ispirato nientemeno che al Cardinale Bellarmino, prima che l’ennesimo bisticcio sopra le righe condito dall’ennesimo moto d’indignazione lo costringesse ad abbandonare la piattaforma. Si tratta, insomma, di un brillante intellettuale incendiario incastonato dentro alle strutture dell’establishment accademico con un carattere che non è disegnato per attirare simpatie.

 

Cosa sostiene Vermeule nell’articolo? Semplice: che l’originalismo va superato in nome di un nuovo tipo di lettura della Costituzione americana che lui chiama “costituzionalismo del bene comune”. L’originalismo è un metodo di interpretazione della carta costituzionale che prescrive di leggere il testo secondo lo spirito e le intenzioni dei Padri fondatori, evitando di sovrapporre e aggiungere altri elementi aggiunti in seguito. La Costituzione è un testo “morto, morto, morto”, diceva il giudice Scalia, paladino dell’orginalismo e avversario degli interpreti della costituzione come organismo vitale che cresce, evolve, si modifica nel tempo, in permanente dialettica con le circostanze. Semplificando molto, l’originalismo è solitamente associato al pensiero conservatore, mentre le scuole che insistono sull’evoluzione del dettato costituzionale pertegono generalmente ai liberali di sinistra. Vermeule sostiene che è il momento di superare l’orginalismo, che ha esaurito la sua duplice missione politico-culturale – frenare gli eccessi interpretativi dei progressisti ed emanciparsi dal rango di bizzarria per fanatici della destra religiosa per diventare scuola rispettabile e tendenzialmente maggioritaria nella Corte suprema da Ronald Reagan in poi – e ora può lasciare spazio a un nuovo approccio. Va notato, per inciso, che anche Donald Trump, ondivago e inafferrabile su tutto, sulla scelta di giudici originalisti ha preso stranamente la strada della coerenza, affidandosi con inusuale docilità ai consiglieri della Federalist Society, la roccaforte dell’originalismo che Vermeule critica aspramente, dimostrando così di non essere nemmeno in linea con l’Amministrazione, che almeno su questo versante ha presentato una linea convenzionale. L’approccio che Vermeule propone “deve essere basato sul principio per cui il governo dovrebbe aiutare le persone, le associazioni e la società in generale a procedere verso il bene comune, e quella regolamentazione forte nell’interesse di perseguire il bene comune è totalmente legittima”. Nella tradizione del pensiero conservatore, scrive, le alternative all’originalismo non sono mancate, e cita ad esempio la posizione libertaria e il tradizionalismo ispirato da Edmund Burke, ma ora “è possibile immaginare un ‘costituzionalismo morale’ che, benché non soggiogato dal significato originario della Costituzione, sia anche liberato dai narrazione sacramentale dei liberali di sinistra, cioè l’espansione dell’autonomia individualista. In una formulazione che preferisco, si potrebbe immaginare un ‘legalismo illiberale’ che non è per nulla conservatore, dal momento che il conservatorismo convenzionale si contenta di giocare in difesa all’interno delle regole procedurali dell’ordine liberale”, scrive Vermeule.

 

Giova specificare qui che il “bene comune” che l’autore mette al centro dell’interpretazione costituzionale non ha nulla a che vedere con l’intersezione o la massimizzazione di beni individuali, ma si tratta della nozione classica del bene applicato alla società umana che la chiesa cattolica, nel compendio della dottrina sociale, definisce “la dimensione sociale del bene morale”. L’idea di Vermeule è dunque un pieno di concezione morale che si oppone al presunto vuoto proceduralista dell’idea liberale (presunto perché sostiene che in realtà sia essa stessa una concezione morale). Scrive l’autore: “L’approccio di cui parlo dovrebbe avere come punto di partenza i principi morali sostanziali che conducono al bene comune, principi che i funzionari pubblici (inclusi i giudici, ma non solo) dovrebbero leggere fra le ambiguità e i caratteri generali della costituzione scritta. Questi principi includono il rispetto per l’autorità delle regole e per chi governa; il rispetto per le gerarchie che sono necessarie al funzionamento della società; la solidarietà all’interno delle famiglie e fra queste, fra i gruppi sociali, i sindacati, le camere di commercio e le professioni; una giusta sussidiarietà, cioè il rispetto per il legittimo ruolo dei corpi intermedi e delle associazioni a tutti i livelli del governo; una esplicita volontà di ‘legislare sulla moralità’, ovvero il riconoscimento che ogni legge è necessariamente fondata su qualche concezione sostantiva della moralità, e la promozione della moralità è una fondamentale e legittima funzione dell’autorità. Principi come questi promuovono il bene comune e contribuiscono a costruire una società giusta e ben ordinata”.

 

L’idea è radicale: si tratta di individuare il bene, un assoluto morale, e dare alla legge e ai suoi organi il potere di realizzare i principi che permettono di mettere in pratica una società ordinata a tale scopo. Attenzione, però: l’autore sostiene che tale struttura è già realizzata nell’interpretazione liberal del testo costituzionale, la quale mette al suo centro un’idea sostantiva del bene, che fa perno sull’estensione dell’autonomia individuale. “Le decisioni costituzionali dei liberal che pretendono di avere escluso la ‘moralità’ come terreno dell’azione pubblica sono incoerenti e truffaldine, perché riposano invece su una versione particolare della moralità”, scrive Vermeule. L’originalismo non è che l’antitesi dello stesso schema dialettico. Il “nuovo” scopo della Costituzione di cui parla Vermeule “non è certamente quello di massimizzare l’autonomia individuale o di minimizzare l’abuso di potere, quanto piuttosto di assicurare che chi governa possa governare bene”; si tratta di “promuovere il buon governo”, non di “proteggere la libertà come bene in sé”, scrive Vermeule, che fa appello al concetto di “ragion di stato” e si premura di distinguere il suo costituzionalismo del bene comune da una forma di positivismo legale di segno rovesciato: i suoi pilastri sono lo ius gentium e il diritto naturale, veicolati dalla tradizione della giurisprudenza.

 

Perché questa presa di posizione ha fatto imbestialire schiere di giuristi di destra e di sinistra? Innanzitutto, per l’accusa di rivangare forme di autoritarismo fascista a tinte medievali e moralizzanti. Il richiamo allo stato forte che guida la società verso il bene, il culto per la gerarchia, la promozione dei valori della famiglia, della sussidiarietà, l’insistenza sul potere esecutivo come legittimo garante di una certa visione morale fa scattare immediatamente chi vede il ritorno di sistemi autoritari dietro ogni svolta della storia. Ma c’è anche un altro aspetto, più profondo. Vermeule nel suo saggio mette in discussione la concezione della libertà come autonomia dell’individuo, idea condivisa dai liberali di sinistra e dagli originalisti di destra. A suo avviso si tratta di un’interpretazione del tutto arbitraria: “Alcune parole della Costituzione come freedom e liberty non devono essere necessariamente interpretate in modo libertario; possono invece essere lette alla luce di una migliore concezione della libertà, intesa come capacità naturale di agire in armonia con la moralità”, scrive. E aggiunge ch l’idea, espressa nella nota sentenza Planned Parenthood v. Casey, secondo cui ogni individuo potrà “definire la propria concezione dell’esistenza, del significato dell’universo e del mistero della vita umana” deve essere “non solo rifiutata ma considerata abominevole e esiliata dal regno delle cose accettabili per sempre”. Più che le visioni di dittature e autoritarismi in divisa, è la ridiscussione dell’idea di libertà il nervo scoperto che ha fatto uscire dai gangheri i suoi avversari. Vermeule ha scritto un post di intonazione satirica per rispondere ai critici, nel quale mette il dito sul punto infiammato della questione: “Prima sospettavo che se fossero stati sollevati dubbi sul liberalismo legale, e non soltanto sulla stretta cerchia di dubbi permissibili all’interno del liberalismo legale, i liberali di sinistra e di destra si sarebbero uniti per difendere l’ideologia dominante, accanendosi contro i propalatori di “idee pericolose” [...]. Ora i miei dubbi sono risolti”. La libertà è il concetto più invocato e allo stesso tempo il più intoccabile, nel suo contenuto, del mondo contemporaneo, ed è il motivo per cui in alcuni circoli questo controverso scritto ha meritato anche una temporanea sospensione del dibattito sulla pandemia.