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Trovare lavoro non sarà automatico

Elena Crivellaro e Fabio Manca

I sistemi educativi non sono reattivi alla richiesta di competenze delle imprese. Solo una parte delle mansioni verrà sostituita dalla tecnologia, in larga parte servirà aggiornamento continuo e flessibile

Il progresso tecnologico, l’automazione, la globalizzazione e fattori demografici come l’invecchiamento della popolazione avranno certamente un impatto rilevante sul futuro del lavoro. Queste tendenze incidono sia sulla domanda che sull’offerta di competenze nei mercati del lavoro di tutti i paesi. Di conseguenza, generano squilibri che possono avere ripercussioni importanti sulla crescita economica, soprattutto laddove i sistemi educativi non sono sufficientemente reattivi ai cambiamenti nella domanda di competenze provenienti da imprese e mercato del lavoro.

 

Se ci focalizziamo sulla tecnologia, nell’ultimo decennio le economie dei paesi Ocse hanno assistito a una forte accelerazione del progresso tecnico. Robot intelligenti e interconnessi, la rivoluzione digitale, l’automazione e intelligenza artificiale stanno modificando sempre più velocemente il mondo del lavoro e ridefinendo l'importanza di alcune mansioni o addirittura di intere categorie professionali.

 

C’è da preoccuparsi? La risposta è complessa. Studi iniziali sull’impatto dell’automazione nel mercato del lavoro hanno paventato il rischio di una “disoccupazione tecnologica” di massa, con il rischio di una perdita secca di posti di lavoro (e.g. Frey e Osborne, 2017). Secondo recenti analisi dell’Ocse, tuttavia, lo scenario potrebbe non essere cosi tragico, ma tuttavia da non sottovalutare. Le nuove stime indicano che, in media nei paesi Ocse, il 14 per cento dei lavori corre il rischio di essere completamente automatizzato (in Italia 15,2 per cento) e quindi di sparire da qui a vent’anni (Nedelkoska e Quintini, 2018). Un altro 32 per cento nei paesi Ocse (35,5 per cento in Italia) dei lavori cosi come li conosciamo oggi potrebbero, tuttavia, subire dei cambiamenti significativi. Una quota sostanziale delle mansioni svolte da lavoratori potrebbe essere, di fatto, rimpiazzata da ‘lavoro automatizzato’ a più basso costo e a maggiore produttività. In sostanza, il messaggio è che una buona fetta di lavoratori dovranno adeguarsi a svolgere nuove mansioni che, con ogni probabilità, saranno complementari a quelle svolte da robot e intelligenza artificiale. Ciò detto, rimane una notevole incertezza rispetto a come le nuove tecnologie entreranno nei processi produttivi e sappiamo ancora poco sul numero di nuove professioni che emergeranno grazie all’utilizzo delle nuove tecnologie.

  

 

Se il futuro è incerto, quello che sembra sicuro, invece, è che l'evoluzione della domanda e dell’offerta di competenze stia già creando asimmetrie (salariali, occupazionali ecc.) che premiano i lavoratori dotati di competenze complesse e di abilità utili per adattarsi a un mercato del lavoro in continua evoluzione.

 

L’Ocse ha recentemente lanciato la banca dati “Skills for Jobs” (www.oecdskillsforjobsdatabase.org) con l’obiettivo di fornire informazioni dettagliate sulla domanda di competenze nei maggiori mercati del lavoro europei e internazionali. Questi nuovi dati confermano che, nei paesi Ocse, anche a seguito della digitalizzazione e della globalizzazione, la domanda di competenze delle imprese si stia spostando verso la richiesta di lavoratori in grado di svolgere mansioni complesse in situazioni ‘non-strutturate’ e ad alto grado di imprevedibilità. I dati mostrano che le abilità di comunicazione, l’intelligenza sociale, la capacità di persuasione e le abilità di negoziazione – dimensioni intrinsecamente legate alle interazioni umane e difficili da automatizzare attraverso l’uso dell'intelligenza artificiale o della robotica – sono fra le più richieste nella maggiore parte dei paesi.

 

Tornando invece alle professioni, in media, ma con notevoli differenze tra paesi, i dati Ocse rivelano che i lavoratori nei settori delle tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni, della sanità, dell’insegnamento, della scienza e dell’ingegneria sono fra i più richiesti in Europa. Molte di queste categorie professionali mostrano una forte crescita di salari e occupazione, e i lavoratori in questi settori riportano un aumento del numero di ore lavorate proprio perché le loro competenze sono di difficile reperimento. Come quadra questo con la tecnologia? I dati Ocse mostrano nuovamente come lavoratori in posti di lavoro ad alto rischio di automazione siano, in media, già adesso meno richiesti sul mercato del lavoro. In sostanza, risultati preliminari mostrano come l’automazione sembra avere già un impatto sul mercato del lavoro premiando chi svolge mansioni di difficile automazione e, invece, punendo i lavoratori impiegati in professioni le cui mansioni sono rutinarie e facilmente sostituibili dalle nuove tecnologie.

 

Se per molto tempo il messaggio è stato semplicemente quello di aumentare il livello medio delle competenze dei nostri lavoratori, adesso sarebbe forse meglio concentrarsi sul ‘tipo’ di competenze necessarie per prosperare. Siamo pronti? Non troppo. Altri dati mostrano come all’incirca 6 lavoratori su 10, nei paesi dell’Ocse, non abbiano competenze di base nel settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. La formazione, non solo quella di base ma anche quella continua, diventa quindi la leva che può fare la differenza affinché i lavoratori possano beneficiare delle opportunità di lavoro create dalle nuove tecnologie e così ridurre il rischio di perdere il proprio posto di lavoro per colpa di un robot.

 

In Italia, tuttavia, il sistema di formazione continua non è attrezzato per le sfide del futuro. Solo il 20 per cento degli adulti in Italia ha partecipato a programmi di formazione professionale rispetto a una media Ocse del 40 per cento (media che è comunque bassa). All’interno di queste percentuali si nascondo grandi differenze fra lavoratori che sono già altamente qualificati e che tendono a formarsi di più e più frequentemente e lavoratori con basse qualifiche che quasi non partecipano alla formazione continua, proprio loro che più ne avrebbero bisogno, essendo generalmente impiegati in lavori a maggior rischio di automazione. Che fare, quindi? Per mitigare questa situazione, i sistemi d’istruzione potrebbero, per esempio, puntare a utilizzare nuove tipologie di apprendimento flessibili e brevi (le cosiddette micro-credentials – corsi brevi di pochi crediti ma altamente focalizzate all’acquisizione di competenze specifiche), utilizzando anche le nuove tecnologie come risorsa di apprendimento. Sarà fondamentale, inoltre, migliorare la pertinenza della formazione degli adulti sul lavoro e l’istruzione dei giovani, adattando i curriculum scolastici e universitari per dare la possibilità di apprendere quanto prima le competenze necessarie per prosperare in società e nel mercato del lavoro. Allo stesso tempo, è di cruciale importanza progettare nuovi strumenti per valutare e riconoscere il livello di competenze degli individui in modo da creare percorsi di apprendimento flessibili e reattivi ai cambiamenti che vivremo nel futuro. La sfida non è banale, e se ignorata ha il potenziale di inasprire le diseguaglianze. Va da sé che non esiste un’unica soluzione ma le politiche d’istruzione, del lavoro, di ricerca e sviluppo e industriali/economiche dovranno lavorare in sinergia per garantire che i benefici della rivoluzione tecnologica arrivino a tutti, riducendo i divari regionali e quelli socio-economici.

 

Elena Crivellaro, economista, Centro per le Competenze Ocse; Fabio Manca, head del team Analisi delle Competenze, Centro per le Competenze Ocse

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