Alcuni progetti del ponte che dovrebbe collegare la Norvegia con la Danimarca (Immagini prese da Facebook)

Arianna, dal Poli alla Norvegia per costruire un ponte sotto il mare

Luciana Grosso

L'ingegnere fuggita da Milano ci racconta il suo progetto: una strada di 1.100 km che parte dalla Danimarca e attraversa 20 fiordi 

“Quando ti metterai in viaggio per Itaca devi augurarti che la strada sia lunga, fertile in avventure e in esperienze”. Comincia così, citando Costantino Kavafis, l’intervista con Arianna Minoretti. Italiana, cervello laureato al Politecnico di Milano e fuggito a 35 anni per la Norvegia, ingegnere e, soprattutto, costruttrice di ponti. In senso concreto, perché si occupa di calcoli e calcestruzzo, e in senso metaforico, perché mentre parla di calcoli e calcestruzzo, il discorso le sfugge di mano e si mette a parlare di futuro.

 

Parla, Arianna Minoretti, del futuro vero, quello che ti fa piantare un albero i cui frutti mangeranno i figli dei tuoi nipoti. “Lavoro per l’amministrazione pubblica dei trasporti norvegese, responsabile, tra le altre cose, degli studi sui materiali per il ponte di Archimede della E39”. La guardiamo straniti, visto che non abbiamo la minima idea di cosa sia la E39, né di cosa sia un ponte di Archimede. “La E39 – inizia a spiegare – è una strada di 1.100 km che parte dalla Danimarca e costeggia l’estremità sud-occidentale della prima metà del paese. Il problema è che attraversa circa 20 fiordi e comprende, nel suo percorso, 7 passaggi di traghetto. In tutto servono 21 ore per percorrerla tutta”.  E il ponte di Archimede? “Il ponte di Archimede è un ponte subacqueo”.

 

Come il tunnel della Manica? “No. Quello, come dice la parola stessa, è un tunnel. Questo invece è un ponte, cioè non poggia al suolo, se non all’inizio e alla fine del suo percorso. Solo che lo fa sott’acqua ed è, ovviamente, chiuso, come fosse un tunnel. La struttura si regge perché, come recita il principio di Archimede, riceve una spinta dal basso verso l’alto pari per intensità al volume del fluido spostato”.  Il progetto, con buona pace dei termini elementari con cui ho costretto Minoretti a spiegarmi la faccenda, è uno dei più avveniristici del mondo. “Una volta completato, il ponte di Archimede della E39 sarà il primo ponte sommerso galleggiante del mondo. Verrà realizzato utilizzando calcestruzzi di ultima generazione, in grado di assicurare resistenza e durabilità all’opera, anche a 30 metri sotto la superficie dell’acqua e in assenza di appoggio”. Ad oggi, al mondo, non esiste niente del genere. Ma in futuro, sì.

 

E questa, il futuro che non si vede ma si immagina, è la cosa per cui Minoretti si infervora, più ancora che per i calcoli e le campate sottomarine. “Visto che stiamo facendo una cosa che nessuno ha mai fatto prima, ci stiamo occupando anche di tutta la parte che riguarda la normativa, nazionale e internazionale, su una struttura del genere. È una pagina ancora completamente bianca. A fine anno dovrebbero uscire le prime linee guida per il ponte di Archimede, per aiutare i professionisti ad avvicinarsi a questa soluzione. Vogliamo essere un punto di partenza”. 

 

E poi, visto che questa faccenda del tempo la prende parecchio, inizia disegnare per aria il futuro come fosse un puzzle di tanti piccoli presenti: “Quando ho cominciato a lavorare a questo progetto non vedevo l’ora di vedere i primi cantieri, non vedevo l’ora di vedere le cose fatte, finite. Poi ho capito che sbagliavo prospettiva, che guardavo le cose troppo da vicino e non vedevo l’insieme. La discussione sulla scienza e sull’ingegneria che ci ha condotto fin qui è iniziata più o meno un secolo fa. Decine di ingegneri e fisici ci hanno messo mano hanno e fatto un pezzo: parziale forse, ma di certo indispensabile. Anche io sto facendo il mio. Il quadro va visto nell’insieme. E anche il tempo va guardato da lontano”.

 

“Vivo in Norvegia – racconta – paese che per varie ragioni, economiche ma anche culturali, ha investito e investe enormi fondi in ricerca e in tecnologia sottomarina, visto che sulle estrazioni off-shore ha costruito buona parte della sua ricchezza”– ci dice, prima di rilanciare e spiegarci che c’è anche una faccenda culturale, che ha a che fare con le donne e con il loro, pacifico, accesso alle professioni STEM: “Non mi piace parlare male dell’Italia, è il mio Paese e guai a chi me lo tocca. Ma penso ci siano cose che, se l’Italia vuole crescere, deve metter in ordine: a partire dalle donne e dal fatto che esiste un assurdo pregiudizio per cui saremmo poco tagliate per i lavori di tipo scientifico o tecnologico. Alle donne, per varie ragioni, in Italia sono quasi completamente precluse alcune professioni, per non parlare poi delle carriere: se si fa un figlio, si è  implicitamente costrette a mollare tutto. La mia opinione, è che dovremmo avere meno pregiudizi verso gli uomini”.

 

Verso gli uomini? “Sì, verso gli uomini. Si continua a credere che siano dei poveri imbranati del tutto incapaci di cambiare un pannolino. Così loro vanno a lavorare, e noi donne stiamo a casa, con i figli piccoli prima e con i genitori anziani poi. Ma non è giusto”. I norvegesi l’hanno trovata una soluzione? “Abbastanza. Si fanno le cose in due. Quando nasce un figlio, i primi sei mesi li fa a casa uno, i secondi l’altro. Del resto, non eravamo d’accordo che si è pari?”. Donne, STEM ponti, strade, figli: alla fine, volta e gira, sempre di futuro si tratta e del viaggio per arrivarci. E sempre a Kavafis si torna.

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