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Il figlio

"Baci all'inferno" è una lettura psicoanalitica e feroce del rapporto tra madre e figlia

Lisa Ginzburg

Ariana Harwicz mostra la simbiosi femminile. La porta allo stremo, quasi da rendere indistinguibile chi partorisce da chi viene partorito. Tra le pagine, il racconto dell'"anticrescere" e della figura del "parental child" 

Una figura centrale della psicoanalisi è quella del “parental child”, il figlio genitore del proprio genitore (o di entrambi), e senza dubbio “parental child” è la giovane protagonista e voce narrante di Baci all’inferno della scrittrice argentina Ariana Harwicz (edizioni Ponte alle Grazie), romanzo di un’intensità a tratti poco respirabile per come si dispiega feroce nella narrazione, nei suoi intenti, nelle conseguenze sia di trama che di architettura psicologica. 

 

Una vicenda feroce come feroce è la relazione tra una madre e una figlia che si dimenano per vivere, assetate di sensazioni volente nel sesso (fanno l’amore con uomini diversi, guardandosi a vicenda) in spazi che sono non luoghi, desolati ma anche densi di rimandi, per entrambe loro evocativi e poetici. Psicoanaliticamente densissima la prospettiva del tentativo letterario riuscito di affrontare una sfida complessa, raccontare la simbiosi: una simbiosi femminile portata allo stremo e all’estremo, un legame tale da rendere indistinte, quasi, madre e figlia, confonderle l’un l’altra in un essere bifronte eppure unico, una natura brutalmente indivisa. 
“Ti ho malcresciuta, ti ho anticresciuta” dichiara spossata la madre alla figlia, e in quel “anti” sta tutto il viluppo di una maternità fatta di sole viscere, di sola collera e colpa, ma una colpa redenta dall’intensità con cui si vive e nonostante tutto, selvaggiamente, ci si ama. Che cos’è “anticrescere”, se non partorire “parental children”; se non ripetere, da genitori, gli stessi errori che sono stati da figli, se non riverberare come possono i cerchi sull’acqua di un sasso lanciato con troppa forza, dinamiche, incastri, acerbe tensioni capaci di invertire nell’immaginazione l’anagrafe, di sovvertire gli schemi di relazione (“io ti ho partorita, ma allo stesso modo potresti avermi partorita tu” arriva a dire la madre alla figlia). 

 

Un libro che vibra eccesso a ogni pagina, a raccontare tuttavia nell’abnormità dei suoi frangenti inventati e scabrosi, il nucleo profondo delle simbiosi connaturate a ogni maternità, così come il destino di ogni fame d’amore. Donne che solamente amando potranno mordere la vita (“se non soffriamo non c’è passione: soffrendo rendiamo possibile l’impossibile, la passione stessa”). Madri che sono madri per fame e per necessità, conoscendo il viluppo profondo dell’ambivalente sacrificio materno. 

 

Non fosse per una temperie infuocata che a tratti lascia poco respiro, un romanzo “infernale” che dell’inferno racconta anche le pause, certe amare dolcezze, la fiamma del volere e cercare, nonostante tutto, spiragli di gioia. Natura e paesaggi che negli interstizi di una storia tutta fatta di rabbia, ferocia, soprusi e malintesi, occhieggiano agli umani infoiati con soavità buona. Forza di un legame che nel voyeurismo di condivisioni impensabili, forsennate, resiste nella consapevolezza di come nella simbiosi ogni età si azzeri. Perché i figli “anticresciuti” si ripartoriscono, le madri distrutte e tenaci restano aggrappate al loro amare – dissennato, feroce amare. Su tutto, la poesia di una prosa enigmatica, rapinosa come rapinosa è la fame del corpo, ma anche quieta ed estatica dopo, nel riposo, nel giacere, nel tornare a guardarsi, sapendo che i legami feroci sono quelli che non muoiono mai, e che nella violenza di ogni scambio si annida, riparata da coltri di invisibile luce, la possibilità di sentire l’amore, in silenzio, tra le schegge e i frammenti di tutto quanto è spezzato, ascoltare la vita che pulsa, nell’indistinzione di ogni simbiosi. 

Una storia senza tempo e che dicendo l’indicibile costella di doni quel che è infernale se pensato con la testa, meno, molto meno se attraversato con le viscere. 

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