(foto di Max Delsid)

il figlio

Scrivere in cucina

Francesca Pellas

Laurie Colwin e la fortuna di vivere in un appartamento minuscolo

È molto importante vivere in un appartamento minuscolo tra i venti e i trent’anni, perché più piccola sarà la casa e più l’immaginazione si farà spazio. Gli unici metri quadri che contano nella prima parte di una vita adulta sono quelli della mente: è lì che devono arrivare un gusto e una visione. Poi le cose cambieranno, e sarà bello avere dei pensili, un’isola da cucina, un grande tavolo per accogliere gli ospiti (gettando via il tavolino pieghevole e il puf su cui abbiamo mangiato per anni), e soprattutto un lavandino capiente, per non dover più lavare i piatti nella vasca da bagno. Prima dei trent’anni però è fondamentale il contrario, se vogliamo che la nostra esistenza impari a dispiegarsi dentro stanze invisibili e luminose, quinte teatrali, e botole immaginarie che si aprono sul mare.

 

Certo, se vi piace cucinare i piccoli spazi possono dare del filo da torcere, ma il doversi ingegnare è una fase di questo apprendistato alla creatività. Lo sapeva bene Laurie Colwin, autrice newyorkese che Sur sta riportando in libreria da qualche anno, e di cui ora esce Home Cooking, sottotitolo: una scrittrice in cucina (tradotto dalla magica Lorenza Pieri). La chiave per questo mix tra ricettario e memoir è proprio il sottotitolo, ottimo per far capire al lettore di che pasta è fatta Laurie e anche per condurlo nella casa più piccola dell’emisfero boreale, che per indirizzo aveva il Greenwich Village e come destinazione la felicità. Lo sa chiunque abbia dimestichezza con l’arte del food writing, ovvero la letteratura che racconta il cibo e le storie che attorno al cibo ruotano: questa è la forma letteraria  più di ogni altra capace di dare gioia.

 

Se avete letto il libro più bello del mondo, cioè My Life in France di Julia Child (scritto col nipote Alex Prud’homme e mai pubblicato in Italia), lo sapete già. Laurie, va detto, era diversa da Julia: non più dissacrante (Julia dice che se vi cade un pezzo di qualcosa da mangiare per terra mentre cucinate non importa, purché nessuno vi veda), ma più semplice, nel senso che a lei non fregava nulla dell’alta cucina, le interessava solo far mangiare alla figlia cibi sani e avere spesso gli amici a cena. Cominciò a scrivere per il New Yorker, dove si fece notare, e pubblicò quattro romanzi, tre raccolte di racconti e due di saggi, in cui sono riuniti i suoi articoli per Gourmet. La sua vita fu prolifica, ma corta: morì a 48 anni, all’improvviso, per un aneurisma dell’aorta. Chissà cos’altro ci avrebbe regalato, se avesse avuto a disposizione tempo in più. A dare conforto  soprattutto a chi, avendola appena scoperta, proverà tristezza nel saperla ormai altrove e sentirà la mancanza delle cose non scritte, è la consapevolezza che Colwin ha vissuto non a lungo, ma bene.

 

Al suo funerale andarono più di mille persone, così tante che non c’era posto per tutte e molte dovettero rimanere in strada. Di quelle mille, alcuni erano amici e parenti, ma buona parte non la conosceva: erano lì perché l’avevano letta, e quindi la conoscevano comunque; sapevano del suo amore per le melanzane, e grazie a lei avevano imparato a camuffare le verdure per farle mangiare ai bambini, ma pure a preparare il pollo fritto a regola d’arte (esistono tante ricette, ma una sola è quella giusta: la sua). E sapevano che cenare da soli è uno dei grandi piaceri della vita, soprattutto se uno può friggersi una melanzana e godersela seduto alla scrivania come quando abitava in quella casa là, prima che cominciasse tutto il resto. Nel 2019 una persona di nome Rf Jurjevics ha scritto di lei su Allure. Ha detto che se è chi voleva essere (tra le altre cose, non una ragazza) lo deve a sua madre, Laurie: è stata lei, negli otto anni di vita insieme, a insegnargli che possiamo essere qualunque cosa, e proprio per questo dobbiamo fare il possibile per diventare noi stessi.

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