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Senza nome in mare

Nicola Scevola

La pagella cucita dentro la tasca, per mostrare, dal Mali all’Europa, che lui era bravo

Sono anni che Cristina Cattaneo fa il medico legale, il “taglia-morti” come si chiamano fra colleghi, e si occupa di cadaveri senza nome. Questo la porta spesso a trattare con i parenti di persone decedute, per i quali ha sempre grande compassione. Fino a cinque anni fa, però, non sapeva fino in fondo ciò che provavano. Poi nell’ottobre 2013 è morto suo padre, proprio mentre all’estremo opposto della penisola italiana un peschereccio con più cinquecento migranti a bordo naufragava al largo di Lampedusa, uccidendo 368 persone. Questa coincidenza, questo lutto condiviso con i parenti sconosciuti delle vittime di quella tragedia, ha creato un legame emotivo, un attaccamento speciale a quella che, da allora, è diventata la crociata della sua vita: identificare le salme senza nome. Quando è diventata orfana, Cattaneo ha capito cosa significa veramente stare “dall’altra parte”. E per la prima volta si è immedesimata fino in fondo nell’angoscia di genitori e figli che non hanno nemmeno certezza sulla fine dei loro cari, non possono seppellirli né onorarli perché continuano a chiedersi dove siano.

 

Oggi questo medico 54enne ha scritto un libro (“Naufraghi senza volto”, Raffello Cortina Editore) in cui racconta la storia di questa crociata che l’ha portata, in collaborazione con l’Ufficio del Commissario straordinario del Governo per le Persone Scomparse, a creare il primo protocollo al mondo per identificare le vittime di uno stillicidio che, dal 2001 a oggi, ha visto scomparire in mare oltre trentamila persone, cospargendo l’Italia di lapidi senza nome.

 

 

“All’indomani del naufragio del 3 ottobre 2013, la domanda che mi posi fu: per qualunque disastro aereo, tsunami o terremoto, qualcuno si muove sempre”, ricorda Cattaneo dal suo studio al primo piano del Labanof, acronimo dal sapore sovietico che indica l’istituto dell’Università di Milano in cui insegna. “Anche se si tratta di paesi in difficoltà, di solito si fa qualche cosa per identificare le vittime. Su questa tragedia: zero”.

 

Grazie all’ondata di solidarietà che le centinaia di bare accumulate a Lampedusa causano nell’opinione pubblica e nel governo, l’Ufficio per le persone Scomparse si scuote dall’inerzia e nel 2014 affida al Labanof il compito di raccogliere i dati post mortem (ricavati da cadaveri e resti) e quelli ante mortem (ottenuti da familiari di scomparsi) per creare una banca dati e metterli a confronto, nella speranza di identificare i migranti.

 

Un lavoro che tanti inizialmente credono addirittura impossibile: da un lato ci sono i dati post mortem, spesso ignorati o raccolti secondo protocolli diversi e dispersi negli archivi delle Procure di mezza Italia. Dall’altro i dati ante mortem, con parenti sparsi in Paesi non identificati, che neanche immaginano che qualcuno in Italia si stia occupando dei loro morti, tanto sono abituati all’indifferenza del mondo. Eppure un lavoro così importante, non solo per il rispetto della dignità degli esseri umani. “Per evitare che i parenti sopravvissuti finiscano nel limbo straziante del lutto ambiguo, condizione che rischia di portare a patologie psichiatriche gravi”, sottolinea Cattaneo. “Ma anche per adempimenti amministrativi importanti. Ricordo il caso di un bambino in Somalia la cui madre, già vedova, morì nel naufragio del 3 ottobre: non riusciva a ricongiungersi con l’unica zia che gli rimaneva in Svezia perché non aveva un certificato di morte. Identificando il corpo della madre, l’abbiamo aiutato”.

 

Il libro svela alcuni episodi strazianti di questa sfida umanitaria che continua da quattro anni in un clima politico ed economico sempre più difficile nonostante, nota l’anatomopatologa, “con poche centinaia di migliaia di euro si potrebbero identificare tutti”. 

   

Durante le interviste ai parenti delle vittime, una donna arrivata da Stoccolma riconosce il numero del suo cellulare svedese annotato con la grafia del fratello su un taccuino trovato addosso a un cadavere irriconoscibile. In un’autopsia, Cristina Cattaneo trova un fagottino pieno di terra legato all’interno di una maglietta di un cadavere con un cordino: un ricordo del paese lasciato per sempre. In un’altra, una pagella piegata con cura, cucita nella povera tasca di un quattordicenne del Mali: la speranza del suo viaggio verso l’Europa.

 

A oggi sono 1.484 le schede post mortem raccolte da 17 naufragi diversi e più di 300 quelle ante mortem. Le salme identificate sono meno di cinquanta, i casi di compatibilità ancora da approfondire un centinaio. Da un certo punto di vista si potrebbe dire una goccia nel mare, ma per Cristina Cattaneo non è questo che conta. “Abbiamo tolto delle persone dalla morsa del non sapere e dimostrato a tutti che questi morti possono essere identificati. Abbiamo creato la traccia di un modello procedurale da seguire e ampliare, perlomeno in Europa, per continuare a lavorare”.

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