Illustrazione di Makkox

I cuori si bucano ma non si rompono, neanche se li prendi a morsi

Annalena Benini e Chiara Gamberale

Cosa è successo nell’agosto duemiladiciotto? E molto prima? Il capogiro retrospettivo, sedersi sui cactus e i Dispiaceri Insopportabili. La corrispondenza tra Chiara Gamberale e Annalena Benini

Sabato 27 ottobre a Firenze a Palazzo Vecchio c’è la Giornata dell’Ottimismo, e nel pomeriggio, alle 17.50, andrà in scena il reading di Annalena Benini e Chiara Gamberale tratto da questa rubrica del Figlio, “Cara Annalena, carissima Chiara”. Ingresso libero fino a esaurimento posti, meglio prenotare scrivendo a: [email protected]

 

Roma, 17 ottobre 2018

Cara Annalena, 

quanto tempo. Quanto tempo? Tre mesi, più o meno. Almeno credo: perché ho perso il conto dei giorni, da quando, quest’estate, è successo qualcosa che non doveva succedere. E mi si è bucato il cuore. Quando ero incinta, la maledetta fantasia drammatica che mi perseguita, proprio nei momenti in cui sentivo che all’improvviso non mi mancava niente, mi sussurrava: e se succedesse che quella persona, proprio quella lì, impazzisce, e non ti riconosce più? Che quell’altra ti tradisce? Che non riuscirai più a scrivere? Avevo perfino immaginato una classifica dei Dispiaceri Insopportabili Che Prima O Poi Possono Capitare, Ma Ti Immagini Se Capitano Appena Nasce Tua Figlia E Ti Costringono A Dargli Retta Mentre Dovresti E Vorresti Dare Retta Solo a Lei?

 

E proprio uno di quei dispiaceri insopportabili l’ha fatto, è capitato, mi ha costretto a dargli retta mentre dovrei e vorrei dare retta solo a Vita. Un mio amico, il mio amico dolcissimo, un pomeriggio di agosto, era giovedì, è morto, lo sai. E sai anche che è stato tutto molto, troppo violento, e che non ho ancora le parole per raccontarlo, ma fatto sta che da quel giorno ho davvero un buco al posto del cuore. E però ho Vita, che cresce accanto a me, sempre meno fra le mie braccia, perché ormai gattona e vuole solo andare, possibilmente allungare la manina proprio dove c’è un nido di calabroni, un fornello appena acceso, la tagliola di un cacciatore pazzo. E ha bisogno dei miei occhi attenti, dei superpoteri che ho scoperto spuntano a tutte le mamme quando devono accorgersi che il minuscolo tappino della fiala per la pulizia del naso è volato nel box, fra i giocattoli, e potrebbe finirle in gola. Vita ha bisogno del mio cuore. Che però, appunto, è bucato. 

 

E allora? Allora che si fa? Se ti sorprende qualcosa che non doveva succedere e se non puoi reagire come avresti reagito fino a dieci mesi fa, nell’altra vita senza Vita, quando avresti preso quel buco, lo avresti caricato su un aereo destinazione Birmania, Namibia, destinazione Lontanissimo, e ti saresti stordita di altrove, perché hai sempre fatto così. O saresti andata a dormire una notte da quell’amica, una notte da quell’altra, pur di non rimanere nel tuo letto da sola con quel cuore rovinato, che quando spegni la luce si mette a fare il suo rumore inconfondibile, di mobili spostati a caso. O ti saresti iscritta a un corso di meditazione trascendentale, avresti provato di nuovo a fare ogni giorno, per dieci minuti, qualcosa che non avevi mai fatto. Ti saresti aggrappata al braccio di qualsiasi sconosciuto per raccontarglielo, quel giovedì, pure se non avevi le parole per farlo.

 

Era così che io mi ero abituata a difendermi dagli attentati piccoli o grandi che mi investivano, Annalena: mi difendevo scappando, rifugiandomi in un paese che non avevo mai visto, in un’avventura nuova, urlando al mondo quanto mi faceva male dove mi faceva male. Invece adesso non posso più urlare. C’è Vita che mi guarda. Non posso più scappare. C’è l’asilo nido da scegliere, c’è la ludoteca che ha aperto poco lontano da casa nostra dove andare a tuffarsi insieme nella piscina di palline colorate, c’è il primo dentino da festeggiare, ci sono i nuovi richiami dei vaccini, c’è tutto, tutti i giorni, da preparare – il biberon delle otto, la pappa di mezzogiorno, lo yogurt delle quattro, la pappa delle sette e mezza. Non si può andare da nessuna parte, bisogna fare quello che mi è sempre sembrato impossibile, tanto più se stavo male: restare.

 

E sorriderle, appena si sveglia e mi sveglio, perché, se potesse capire, per lei magari le troverei le parole, le direi:- Perdonami amore: succede che la mamma ha il cuore bucato -, ma non può ancora capire. E però sente tutto. E’ ogni giorno più attenta, dice in continuazione bap, in particolare quando prendo in mano il cellulare: bap bap bap, allora dice, e alza il tono, come per dire eddai, non ti distrarre, ascoltami, ho da dirti che bap e poi bap, e ancora bap. Mi ascolti? Perché, insieme al dentino, anche il carattere le sta spuntando… Comincio a credere che abbia ragione chi sostiene che la natura sa tutto e dobbiamo fidarci di lei: dal momento in cui rimani incinta, ti dà nove mesi per abituarti all’idea, finché quell’idea arriva, è una persona. E però ecco un’altra manciata di mesi, per prepararti al fatto che quella persona oltre a essere tuo figlio sarà una persona, appunto. Ti immagini che shock sarebbe se uscissero dalla pancia, i nostri figli, e avessero subito un timbro di voce, l’erre moscia, e ci dicessero ciao, io tifo la Lazio, non mangio i peperoni, mi piace il jazz, preferisco dormire in quella stanza lì e sono arrivato oggi per non andarmene più dalla tua vita? Invece si prendono tempo, ci danno tempo.

 

E la sfida sta tutta lì, certo, nel fatto che il loro timbro di voce, la squadra che tiferanno e quello che mangeranno avrà comunque a che fare con noi. Ed è proprio per questo, Annalena, che oltre a stare male, in questi mesi mi sento così tanto in colpa di stare male: ho paura di contagiarla, con questo buco. Ho paura che nonostante tutti i miei sforzi, lei si accorga che in certe giornate, soprattutto verso le sei di sera, già fare un atto di presenza mi sembra un’impresa eccezionale. Ho paura che le sue paure, un domani, avranno a che fare anche con questi tre mesi, agosto settembre ottobre duemiladiciotto. Certo, non potrà ricordarseli, gli occhi di sua mamma che ogni tanto si riempivano di niente. Ma chissà di quale suo atteggiamento, di quale ritrosia o di quale eccesso saranno in parte responsabili.

 

Arriverà il momento di raccontarsi tutto, spero. Spero che nessuna delle due, quando Vita crescerà, sarà mai stanca di chiedere e di sapere.

 

Che cosa è successo oggi a scuola, amore?

 

E nell’agosto del duemiladiciotto: a te che cosa è successo, mamma?

 

Ma, nel frattempo, come si fa? Dove si mettono, amica mia, tutte quelle cose di cui non possiamo parlare con loro, e che però ci bucano il cuore? Mi sa che bisogna solo attraversare, vero? I nostri buchi e le giornate. Di dieci minuti in dieci minuti, confidando in quei momenti che ci sorprendono quando meno ce l’aspettiamo, come ieri, dopo il bagnetto. Mentre la asciugavo, Vita ha allungato una mano, mi ha infilato un ditino nel naso, ha cominciato a ridere come una pazza, da non riuscire proprio a fermarsi, con la bocca spalancata, il suo dentino mezzo fuori mezzo ancora dentro, la testa ribaltata all’indietro. Finché. Mamma bap. Ha detto. L’ha ripetuto: mamma. Bap bap. Mamma. E il cuore lì per lì mi ha promesso che no, non si è rotto. Si è bucato, ma non si è rotto. Finché lei avrà un qualsiasi motivo per ridere come una pazza, non si romperà. 

 

Tua C.

 


 

Roma, 18 ottobre 2018

 

Carissima Chiara,

 

Zadie Smith parla di “capogiro retrospettivo”: un movimento frastornante, a metà fra presente e passato, così intenso da far venire la nausea eppure, alla sua maniera dolorosa, istruttivo. Ho avuto questo capogiro retrospettivo qualche giorno fa proprio a casa tua: stavamo preparando il reading delle nostre lettere, ma stavamo soprattutto parlando di questi Dispiaceri Insopportabili che Prima o Poi Possono Capitare: purtroppo la vita li produce, le persone li procurano, e nessuno aspetterà mai che tua figlia abbia diciott’anni per ferirti, per andarsene, per tradirti, per morire, e anche per non consegnare la pizza che avevi ordinato, per non venire ad aggiustarti il water, per allagarti la casa o per comportarsi da immenso stronzo.

 

Parlavamo e parlavamo, e Vita aveva sonno e Benedetta era molto infastidita perché noi invece di addormentare subito Vita o invece di parlare di cavalli con lei ci eravamo isolate sul nostro pianeta post adulto, bevendo due birre direttamente dalla bottiglia, e facevamo i turni alla finestra per fumare, e parlavamo a voce molto alta, e ridevamo di cose misteriose, e facevamo a lei domande di cui non aspettavamo la risposta, e ogni tanto controllavamo i telefoni e ci leggevamo a vicenda dei messaggi incomprensibili, e una di noi a un certo punto ha pianto, ma forse tutte e due abbiamo pianto.

 

Quando ho intercettato lo sguardo scettico e vagamente disgustato di mia figlia, ho avuto anche io il mio capogiro retrospettivo: mi sono ricordata di mia madre a casa della sua amica, certi pomeriggi in cui mi costringeva ad andare con lei anche se mi annoiavo a morte, e loro parlavano e parlavano e a volte litigavano mi sembra, perché urlavano, due insegnanti che discutevano dei punti in graduatoria ma credo anche (lo credo adesso, perché allora non me ne fregava niente) di qualcosa di più, e mi ignoravano talmente tanto che io a un certo punto, un pomeriggio qualunque in mezzo a quelle discussioni e a quegli sfoghi e a quei segreti, ho fatto il giro del salotto, fra ficus benjamin e libri d’arte e divani di pelle anni Ottanta, e presa dalla voglia di esistere mi sono seduta, ma proprio seduta con la consapevolezza che mi stavo sedendo, sopra un grosso cactus. Di quelli con migliaia e migliaia di spine minuscole, gialline, quasi morbide, che però bucano anche i jeans e entrano nella pelle, e una spina contiene almeno otto spine. Finalmente quelle due hanno smesso di parlare delle cose loro da grandi e mi hanno portato al pronto soccorso a togliere le spine.

 

Ecco, penso adesso con il capogiro retrospettivo, come si sentono i miei figli quando io non esisto più, quando dico sto lavorando sto parlando ho mal di testa ho un problema da risolvere non entrare in bagno arrivo fra cinque minuti sto lavorando sto salvando il mondo sto litigando, ma insomma puoi lasciarmi un momento in pace?

 

Si sentono che devono correre a sedersi sopra un cactus per ritrascinarmi da loro. Così, oltre al cuore bucato o traboccante o tramortito, e gli occhi pieni di niente, abbiamo anche tutte queste spine gialle sottili maledette da togliere subito. E se ci ripenso adesso, vorrei solo chiedere scusa a mia madre: aveva trent’anni, era una ragazza e vivevamo in quel periodo a casa di mia nonna, cioè lei viveva a trent’anni con sua suocera e io mi sedevo sopra i cactus invece di lasciarla sfogare e ubriacarsi con la sua amica: i bambini sono così narcisisti, non pensano che esista qualcun altro al mondo oltre a loro.

 

Nessun altro al mondo, neanche il dolore: quando allattavo Benedetta, non potevo né parlare né mandare messaggi. Se lo facevo lei si arrabbiava, smetteva di prendere il latte, si girava di scatto, piangeva. Vedevo le altre che ballavano alle feste o tenevano comizi o cenavano al ristorante con le loro figlie sazie e indifferenti, io invece non potevo muovermi, non potevo usare la mano libera, non potevo nemmeno dire: c’è un incendio, scappiamo. Perché lei si sarebbe arrabbiata, avrebbe digiunato, ed era già troppo magra, proprio come adesso. Sei, cinque, quattro, infine tre volte al giorno, per dodici mesi ma soprattutto per molte ore al giorno: non mi era permesso avere un’amica, un messaggio, un pensiero né triste né allegro, un incendio da cui fuggire. Ero soltanto sua, eravamo solo io e lei: chissenefrega dell’universo, dei bombardamenti, dell’apocalisse, degli psicopatici che mi inseguono con i coltelli, dei cani lupo, figuriamoci dei buchi nel cuore.

 

Ho capito allora che il mio cuore non era più proprio un cuore e soprattutto non era più proprio mio. Dovevo aspettare che lei mi desse il permesso di usarlo, oppure potevo soffrire di nascosto. E’ più o meno quello che impongo adesso a mio figlio Giulio: un’ora di PlayStation e poi basta, sennò ti esce il cervello dagli occhi e non rientra mai più e tu resti cretino per sempre. Allora lui ogni tanto si chiude in bagno e io so che sta giocando alla PlayStation o a qualcos’altro di nascosto. Così anche io a volte mi chiudo in bagno e tiro fuori il cuore, lo guardo tutto vivo e palpitante, certe sere assomiglia a un colabrodo. Lo rimetto al suo posto, gli dico forza, poi torno a trovarti, e non ci penso più.

 

E la risposta, Chiara, è: non si rompe. Puoi buttarlo giù per le scale e non si rompe. Possono strappartelo e prenderlo a morsi, e non si rompe. Adesso va’, metti Vita nel box e tu chiuditi in bagno, tiralo fuori ma solo per un attimo e guardalo: è un colabrodo, ma è tutto intero.

 

A.

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