Illustrazione di Anna Sutor, "Natura"  

L'importanza di non capire tutto, fra Procida e la campagna con i cavalli: chi saranno le nostre figlie?

Annalena Benini e Chiara Gamberale

Le somiglianze, la differenza e quella fondamentale domanda: ti fiderai di me? Lettera di Chiara Gamberale dall’isola di Arturo

Procida, 6 giugno 2018, ore 6.56

   

Cara Annalena, un’altra isola, stavolta Procida. Sono qui, come ogni anno, per il mio piccolo, adorato Festival, Sei personaggi in cerca di autore, dove alla prima edizione sei venuta anche tu. Aveva l’energia pazza degli inizi quell’edizione, che credevo sarebbe passata con il tempo: e invece no, sarà merito dell’incanto di Arturo, o del fatto che il Festival di fondo festeggia le uniche due cose che mi interessano, cioè le persone e i libri, ma ogni anno qui mi sento nello stesso tempo a casa e in un posto sconosciuto, dove tutto è sempre nuovo, sempre diverso. E poi stavolta c’è Vita con me. Pensa che esattamente un anno fa, proprio la sera prima di partire per Procida, mi era arrivata la telefonata con i risultati dell’amniocentesi e avevo saputo che la bambina stava bene e che, appunto, era una bambina. La pancia era ancora impercettibile, eppure a me sembrava gigantesca, finalmente potevo smetterla di nasconderla e in quel momento, sul traghetto da Napoli, per me è cominciato il mitico secondo trimestre, quando diventi tutta corpo, passa la nausea e arriva la sensazione di non avere più bisogno di niente, solo voglia di aspettare. Fatto sta che contavo i giorni per prendere di nuovo quel traghetto, il primo della vita di Vita: tornare due settimane fa dal Plemmirio, la campagna vicino a Siracusa dove ci siamo trasferite per un mese, non è stato facile. All’inizio, come ti avevo scritto, l’impatto con quel promontorio lontano da tutto è stato duro, di colpo della mia esistenza mi sembravano evidenti solo le complicazioni, ma poi l’azzurro del mare che ogni giorno si faceva un po’ più chiaro per correre verso l’estate ha avuto la meglio sui pensieri neri… E Vita e io abbiamo passato i nostri giorni più lievi, perché forti di una complicità che, mentre passa per vie che non capisco e non posso controllare, cresce. Una volta a casa, però, i marciapiedi che nel nostro quartiere non esistono, l’ascensore dove il passeggino non entra, il casino che fa Roma mentre esiste, tutto mi è arrivato addosso come uno schiaffo. Non l’ho mai risolto questo mio problema con la città, se non partendo ogni volta che potevo, ho smesso di lavorare in radio e ho cominciato a collaborare con i giornali fondamentalmente per questo, per potere essere libera di scappare. E che cosa farai quando Vita andrà all’asilo? Mica potrai abbandonarla per tre mesi l’anno, no? Mi chiedono gli amici che hanno lo straordinario talento di fare sempre le domande più stronze nel momento sbagliato. Certo che no, figuriamoci, rispondo io, e cambio discorso. Ma in realtà prima penso: aiuto. Subito dopo penso: ci penserò. Sto cominciando a farlo, vedi? Per chi è devastato dall’ansia come me non è immediato, ma in questi sei mesi mi sono arresa almeno a due di quelli che credevo nemici pericolosissimi: il ci penserò, appunto, e il disordine. Infatti anche qui a Procida, nella casetta che ogni anno mi aspetta alla Corricella, dopo due giorni già niente è più al suo posto e ogni volta che mi serve qualcosa, lo spazzolino o il computer o una scarpa, mi ritrovo in mano Naso, l’elefantino viola e verde che mia figlia ha eletto, fra tutti, a suo peluche di riferimento, e quando lo cerco perché è ora di farla addormentare, naturalmente non lo trovo mai.  

   

Fatto sta che è passato già mezzo anno, te ne rendi conto? Io no, io mai.

Ma la nebbiolina dei primi giorni comincia a diradarsi e torno a vedere almeno i contorni delle cose e delle facce.

La prima è la sua, sempre, è quella di Vita: non è più qualche chilo, un pezzo di luna, un’aspiralatte, l’essereumanità sta sbocciando, è una persona ormai.

Il colore cosmico (lo sapevi che si chiama così quello misterioso e indefinibile degli occhi dei neonati?) si sta sciogliendo in un castano scuro.

La faccetta tonda, gli occhi grandi, il nasino a lampone: somiglia in tutto e per tutto al padre, come dice un mio amico a me somiglia solo perché è femmina.

Preferisce le zucchine alle carote e il formaggino Mio al parmigiano, la fanno molto ridere gli uomini con la barba e i tacchi che fanno rumore, oltre che Naso le piacciono degli anelli di plastica colorata e un coniglio che suona.

Piange poco, ma quando lo fa non è mai perché si lamenta: è sempre perché pretende qualcosa- di essere presa in braccio, di volere altra pappa, fondamentalmente di essere considerata.

Osserva, si gira, sta seduta, si ciuccia un piede.

   

Cose che tutti i bambini prima o poi fanno, certo: ma forse quando tocca al tuo cominci finalmente a realizzare che non è successo solo che sei rimasta incinta e poi hai partorito, no: è successo soprattutto che è arrivata, appunto, un’altra persona. E adesso? Chi diventerai, Vita? Chiedo, dentro di me, ogni volta che incrocio una ragazza per la strada. Avrai i capelli lunghi, come quella lì? L’aria incazzata, come quell’altra? Ti fiderai di me? Porterai gli anfibi, le ballerine? Parlerai tanto, parlerai poco? Sarà vero, come c’è scritto nella mappa astrale che ci hanno regalato quando sei nata, che “chi è nato il 23 novembre difficilmente sa intessere relazioni di carattere emotivo, ma predilige relazioni di carattere sessuale, ed è attratto più dalla possibilità di partner stranieri che connazionali”? Ti fiderai di me? Ti piacerà cantare, ti piacerà Procida, sarai anche tu a disagio in una grande città, ti fiderai di me?

   

Ed ecco che la nebbia torna a farsi fitta, ma è una nebbia diversa da quella degli inizi. Quella separava me da me. Questa separa me da lei, da quello che sceglierà e che le capiterà finché, come Arturo, come tutti, lascerà l’isola dei nostri primi anni insieme, destinazione futuro. Bisogna proprio imparare a dirselo, non c’è scampo: ci penserò.

Tu però sali sul primo treno con Benedetta e venite qui, dai.

  

Tua

Chiara

 


       

Roma, 7 giugno 2018, ore 14.27

       

Carissima Chiara,

non posso venire a Procida perché abbiamo promesso a Benedetta due giorni in un posto in campagna con i cavalli, le passeggiate a cavallo, il maneggio per i cavalli, i cavalli da lavare, le carote per i cavalli, quell’odore forte di cavallo, le mosche sui cavalli.

  

Ti ho già detto che ho molta paura dei cavalli? Mi ricordano l’ex fidanzato pazzo di una mia importantissima amica, con gli occhi un po’ laterali da cavallo e le gambe magre da cavallo: un momento era buono e dolce e mangiava le carote che lei gli dava, il momento dopo partiva al galoppo dentro il suo sadismo, con ghigno da cavallo. Non posso guardare un cavallo senza pensare a lui, mentre mia figlia grida: guarda quanto è simpatico questo cavallo, ti piace mamma? Preferisci quello bianco? Quello con le macchie marroni che si chiama Lola? Non lo vuoi accarezzare? Perché non lo guardi, perché non gli fai una foto, un video, PERCHE’ NON TI PIACCIONO I CAVALLI?  

  

Non voglio fare espiare ai cavalli colpe che non hanno, sia chiaro, non penso che tutti i cavalli siano come l’ex fidanzato della mia amica, Lola è un nome molto carino e io ho provato anche a fingere interesse e tenerezza almeno verso i pony, giuro che li ho accarezzati e che non ho pregiudizi e non direi mai: ho molti amici cavalli, ma la verità è che non mi piacciono i cavalli.

  

Amo molto i cani, i gatti, le tartarughe, i conigli, non mangerei mai un coniglio né un agnello, e certo nemmeno un cavallo, ma non riesco a provare simpatia per i cavalli, mi è piaciuto moltissimo L’uomo che sussurrava ai cavalli ma nelle parti senza cavalli (soprattutto quando Robert Redford balla con Kristin Scott Thomas e le tocca la schiena in quel modo), e non voglio fare nessuna passeggiata a cavallo con addosso quei pantaloni stretti.

  

Una sera a cena ci chiedevamo a vicenda, tra amici, quali fossero le nostre fobie: l’aereo, i topi, le code dei topi, i serpenti, i ragni, le lucertole che cadono dal soffitto, il calabrone quando vola e fa rumore, i gabbiani sopra le automobili, l’ascensore che si ferma fra due piani. Tutti erano molto comprensivi verso le paure degli altri, molto affettuosi verso chi non prende l’aereo e chi sviene quando vede un calabrone, anche verso chi spara ai gabbiani, ma poi io ho detto: ho la fobia degli occhi del cavallo quando mi guarda. E nessuno ha detto: ti capisco, anche mio cugino di terzo grado è come te (che è la cosa che si dice di solito per essere gentili). Hanno detto solo: ma come, sono così belli i cavalli, così sensibili, che peccato, dovresti proprio cercare di superare questa paura insensata, guarda che per tua figlia è importante.

  

E’ proprio come mi hai scritto tu: gli amici hanno lo straordinario talento di dire le cose più stronze nel momento sbagliato. Allora io ho prenotato questo fine settimana a cavallo e ho promesso anche di fare la doccia a un cavallo, ma con il patto che non deve per nessun motivo guardarmi negli occhi. Così, invece di guardare il mare di Procida con voi, io guarderò il sedere di un cavallo.

  

Però è questo che succede, a un certo punto: si scopre di essere diversi, diversissimi. La bambina che mi stava in braccio e nel marsupio e che si addormentava solo se camminavo, e che ancora adesso mi dà la mano per attraversare la strada e mi chiede di aiutarla a vestirsi per lo spettacolo di fine anno scolastico, è molto diversa da me, ed è molto diversa anche da quello che avevo immaginato di lei, per lei. C’è qualcosa di misterioso che io non riesco mai a raggiungere, e quel mistero si riverbera anche nella mia reazione e nei miei sbagli, nel mio assurdo tentativo di dirle: guarda me, fa’ come me.

  

Sto imparando quello che forse ha imparato mia madre con me: la continua, implacabile, forse necessaria affermazione di una differenza. E a volte mi ritrovo a combatterla, e subito dopo non capisco perché l’ho fatto.

  

Grace Paley, poetessa, femminista, madre, scrittrice amatissima da Philip Roth, che aveva in testa e nei racconti il confronto e l’amicizia fra le donne, direbbe che questa è “l’importanza di non capire tutto”. Non capisco perché a mia figlia non importi nulla di avere un paio di scarpe nuove, ad esempio, non capisco perché si dimentichi sempre di pettinarsi, non capisco perché non legga i libri che leggevo io, non capisco perché non mi chieda mai niente del mio lavoro e non capisco perché non stia scoppiando di gioia e di attesa all’idea di andare in Inghilterra da sola con un suo amico quest’estate. Io sarei impazzita di felicità, lei non lo dice ma preferirebbe stare nella solita, minuscola spiaggia a pescare granchi con suo fratello piccolo.

  

Io amo la città, l’idea di averla raggiunta, il centro, i ristoranti pieni, i cinema, le fontane, i muri roventi, i marciapiedi tutti rotti, parcheggiare il motorino in posti inconcepibili e trovare sempre qualcuno che al self service mi aiuta con la benzina, lei come te vorrebbe vivere in campagna, con cani gatti galline capre e naturalmente cavalli, molti cavalli, terra e prato e lucciole, e dare a ciascuna lucciola un nome. Io dopo tre giorni di campagna provo lo struggimento per i clacson delle automobili e per la sirena dell’ambulanza, per il pizza-taxi. Lei dice sempre: quanto è brutta Roma, quanto è sporca. Io quasi mi offendo, perché per me Roma è una conquista. Lei che ci è nata può disprezzarla, io che l’ho rincorsa non posso smettere di amarla.

   

Le faccio vedere le foto di quando era piccola, e non si commuove per niente. Poi mi ricordo che mia madre mi faceva vedere le foto di quando ero piccola, e non mi commuovevo per niente. Adesso mi commuovo tantissimo, ma perché misuro il tempo in un modo diverso, e quando guardo mia figlia appena nata non vedo più soltanto lei così piccola e dolce, vedo anche me tanti anni fa alle prese con lei così piccola e dolce, e ricordo il mio pensiero folle: che bello quando sarà grande e saremo uguali.

   

Non siamo uguali, non mi assomiglia nemmeno fisicamente. Guardo Mattia e gli dico: possibile che nostra figlia assomigli soltanto a te? Ha anche lo stesso modo di muoversi nel sonno, le stesse dita delle mani, lo stesso raffreddore con gli occhi che lacrimano, la stessa sbalordita innocenza nel dimenticarsi in un secondo tutto quello che le ho detto il secondo prima. Non poteva assomigliare un po’ anche a me, gli chiedo, non potevi essere un po’ più generoso? Lui però dice che è identica a me quando perde lo zaino e quando parla con i gatti, e anche quando non sparecchia. E ha le lentiggini come me. E’ un’altra persona, è mia figlia. La domanda più importante l’hai già fatta tu: si fiderà di me? Io spero di sì, come io mi fido di lei, che mi ha insegnato ad accarezzare Lola, il cavallo bianco con le macchie marroni. Mi ha detto: guarda che occhi dolci che ha. Io ho chiuso i miei, e ho allungato la mano.

  

Annalena

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