Illustrazione di David Sala per “La furia di Banshee” di Jean-Francois Chabas (Gallucci editore)

Le vaccinazioni, le infermiere e il caro ricordo del barometro. L'importanza di non avere ragione

Annalena Benini e Chiara Gamberale

Ciao, mamme! Chiara Gamberale e i sette mesi di Vita, in cui stare sempre insieme sempre da sola. L’infinito pugilato dell’amore

Roma, 3 luglio 2018, alba

    

Cara Annalena,

stamattina, quando sono andata alla Asl con la mia amica Manuela per il richiamo di un vaccino di Vita, l’infermiera con i capelli a nuvola che chiama i genitori nella sala d’attesa ci ha salutate come al solito: ciao, mamme. Era la quarta volta che ci incontrava, e il copione è stato lo stesso di sempre. Mamma uno, tieni tu la piccolina ferma per la puntura? Mamma due, mi dai il libretto dei vaccini che lo aggiorniamo? Quale mamma è più precisa e può prendere il prossimo appuntamento in segreteria? Finora avevo lasciato correre, ero troppo impegnata a tenere insieme la paura che mi fanno le punture con quel momento odioso in cui l’ago affonda nel cosciotto di Vita e io non posso girarmi dall’altra parte: lei cerca me. Ma stavolta non so perché (credo c’entrino banalmente gli ormoni) mi sono sentita di specificare: “Lei è Manuela, una mia carissima amica, mi accompagna perché il padre della bambina non vive con noi, e sta a Milano: non è una situazione facile… Ma insomma: la mamma sono solo io”. L’infermiera, poveretta, sotto la nuvola è diventata tutta rossa, ha cominciato a balbettare strane cose, porca l’oca: ma io ho sessantasette anni, ha ripetuto due volte, e poi ci ha spiegato: “Come la faccio sbaglio, porca l’oca. Non sapete quante volte sono stata sgridata da coppie di papà o di mamme perché davo per scontato che solo uno era il genitore, e l’altro un amico o un’amica, o magari uno zio, che ne so, e invece no, erano due genitori, pure se maschio maschio o femmina femmina, porca l’oca. Allora ormai, per essere moderna e non fare incazza’ nessuno, lo dico subito: ciao papà e papà. Ciao mamme. Ma non va bene neanche se faccio così, e adesso pure voi vi siete offese. Porca l’oca”.

  

L’abbiamo rassicurata, le abbiamo detto che non eravamo per niente offese e che, anzi: a me non dispiacerebbe affatto crescere un figlio con Manuela, perché ne ha due adolescenti che sono fantastici, è davvero una grande madre, e perché crescere Vita da sola in certi giorni – per esempio quello del vaccino – è davvero faticoso. A quel punto è intervenuta una tipa alta e biondissima che era in fila prima di noi, aveva appena fatto vaccinare il suo bambino: “Beata te”, ha soffiato, e lì per lì non ho capito.

  

“Cosa?” – le ho chiesto. Ha mollato il bambino al tipo altrettanto alto e biondo che era con lei, mi si è avvicinata, ha ripetuto: “Beata te”, e non c’è più stato tempo per parlare, è arrivato il turno di Vita, del maledetto ago. Ma dopo il vaccino siamo tornate in sala d’attesa per i venti minuti che di prassi bisogna aspettare prima di andarsene. E li abbiamo trovati che litigavano, i biondi altissimi.

  

Tanto tu non mi risponderai mai, diceva lei, tanto tu non ascolteresti, lui. Poi ci hanno viste, e lei, a me: “Hai capito quanto sei fortunata a crescerla da sola, tua figlia? Qui è tutto un pugilato fra massacri”.

  

Volevo capire meglio, ma non c’è stata la possibilità. Loro hanno ripreso a dirsi che si sarebbero dovuti dire cose che uno non avrebbe detto mai e l’altra non avrebbe mai ascoltato, noi abbiamo aspettato un altro po’ e siamo andate via. Però tornando a casa con Vita, continuavo a pensare.

  

E’ tutto un pugilato fra massacri: che cosa avrà voluto dire, l’altissima? Che quando nasce un figlio spappola – massacra, appunto – tutto quello che eri fino a quel momento, e il confronto serrato e quotidiano fra due spappolamenti può rivelarsi ancora più impegnativo rispetto a un faccia a faccia serrato e quotidiano fra te e te, rispetto insomma a crescere un figlio da sola e da sola addormentarsi con lui, provando a convincersi che va tutto bene: non può succedere niente, e comunque se succederà qualcosa non sarà stanotte; da sola cercare una nuova signora che ti aiuti con le pulizie se la tua ti molla misteriosamente e all’improvviso; da sola organizzare le vacanze, capire come fare a spingere trolley tuo e passeggino suo fino al binario da dove partirà il vostro treno; da sola calcolare che cosa è meglio portare da casa (il latte anti-coliche che poi magari lì dove andate non si trova, le vitamine, il barattolone del biscotto granulato senza glutine) e che cosa conviene prendere direttamente lì (la frutta, la verdura, i pannolini, un seggiolone… ma quando? Appena scese dal treno? Se non è chiaro come farai a spingere trolley e passeggino fino al binario di Termini, come potrai fare la spesa quando arrivi, ammesso e non concesso che ci sia un supermercato fra la stazione e la casa dove passerete agosto?).

   

O magari l’altissima voleva dire che crescere un figlio insieme è un incontro al vertice non solo fra due persone, ma anche fra le infanzie – i massacri, appunto – di quelle persone che inevitabilmente, essendo stati amati – e massacrati – ognuno a modo suo, penseranno che bisogna amare – illudendosi di non massacrare – ognuno a modo suo?

  

Non lo so. So solo che in questi sette mesi, a volte, questo stare sempre insieme sempre da sola mi ha tolto il fiato, ma oggi in quella sala d’attesa ho avuto la sensazione che ognuna di noi, quando tocca a lei, si senta l’eroina incompresa, felice e disperata in un modo solo suo, di un romanzo diverso, assolutamente diverso da tutti quelli che sono stati scritti fino a quel momento.

   

Ma magari tu, che da dodici anni fai pugilato con i massacri di Mattia, puoi aiutarmi a capire meglio: che cosa voleva dire l’altissima, secondo te?

  

Tua

C.

  

Roma, 4 luglio 2018, notte

  

Carissima Chiara,

una volta, anni fa, quando era ancora tutto nuovo e tutto fondamentale, decisivo, importantissimo, ho chiesto a Mattia di portarmi il termometro perché la fronte di Benedetta scottava e lei piangeva. Sentivo rumore di cassetti aperti e richiusi, sportelli sbattuti, imprecazioni, e dopo un po’ Mattia è comparso in salotto: stringeva in mano un termometro da esterno, quello da appendere sul balcone, quello che ti dice anche se a un certo punto pioverà.

  

E’ successo molto, molto tempo fa, ed è uno dei ricordi più cari che ho. All’inizio ho pensato a uno scherzo, poi invece ho capito che, avendo io detto “termometro”, lui aveva portato legittimamente un termometro da giardino. Quindi ho immaginato di ucciderlo. Signor giudice, nostra figlia di pochi mesi aveva la febbre alta, piangeva, e lui mi veniva incontro con un barometro, ho perso la testa, mi affido alla sua clemenza. Magari non avrei ottenuto un’assoluzione piena, però molte attenuanti, pensavo, e lo sguardo comprensivo del pubblico ministero, di solito ferocissimo e inflessibile, che dentro di sé diceva: però cazzo, le ha portato un barometro. Alla fine non l’ho ucciso, perché lo amo, perché la vita umana è sacra e perché comunque avrei dovuto ucciderlo con il barometro ed era complicato, e ho perfino riso e ho finto di provare la febbre a Benedetta con quel coso. Ti ricordi vero quel film imprescindibile che è “Dirty Dancing”? Quando Baby dice: “Ho portato un cocomero”? Ecco, il mio caro ricordo è diventato: ho portato un barometro.

  

Da allora sotto i ponti della nostra vita insieme è passato anche molto pugilato, come ha detto la tua sibillina e altissima compagna di vaccinazioni, sono passate anche molte vaccinazioni, molti libretti delle vaccinazioni perduti, molti disastri dovuti alla nostra comune tendenza a portare quasi sempre un barometro al posto di un termometro, nelle cose della vita pratica. Vorremmo che i nostri figli crescessero con la testa sulle spalle, ma la nostra è sempre sulle nuvole.

  

Poi ci sono le ossessioni, e ognuno ha le proprie, per esempio a me piace ripetere molte volte, ma proprio tante: te l’avevo detto. Anche: avevo ragione io. Mi piace tantissimo avere ragione, ma ancora di più averla avuta quando non mi veniva data. Mi piace aver subito un’ingiustizia, e chiederne riparazione. Quindi cammino in solitudine lungo la strada della mia misconosciuta ragione (ragione morale, ragione pratica, ragione pura su una decisione da prendere, su un libro da leggere, su un pigiama party che non si può assolutamente evitare, ragione sul gesto misero di un amico scadente che io avevo già segnalato come scadente, ma ragione anche sul decadimento di una pizzeria o sulla bellezza di una serie tivù, ragione su dove andare in vacanza, ragione sul traffico del rientro la domenica sera, ragione sui problemi del lavoro, ragione sul sentimento di qualcuno per qualcun altro), e lascio che il mondo vada avanti e che il nostro pugilato famigliare percorra felicemente altre strade, ma poi arrivo sempre a un punto, vicino o lontano nel tempo, in cui posso far valere la mia ragione: di solito è un momento di quiete, insospettabile, un momento qualunque senza un preciso collegamento con la mia ragione, un momento in cui sono tutti rilassati e ignari, e invece io sto preparando la mia grande, immensa rivincita. “E allora, com’era poi quella faccenda?”, chiedo con una finta noncuranza, come per rassicurarli: non è della mia ragione che si tratta, ma soltanto delle cose della vita, una semplice curiosità, continuate pure a fare quello che stavate facendo. Ma appena ottengo, non importa quanto subdolamente, le prove di cui ho bisogno, è lì che si scatenano il mio trionfo e la mia furia. Niente è più eccitante di avere avuto ragione fin dall’inizio, niente è più essenziale, adesso, di sentirmi dire: avevi ragione tu, hai sempre avuto ragione, quella pizza fa schifo. Oppure: il cane era allergico al pollo proprio come dicevi tu. Anche: non ti avevo ascoltato. Il massimo però è: la mamma ha sempre ragione.

  

In nome di questo riconoscimento, che arriva di solito dopo un breve martirio, posso scalare tutte le montagne, sopportare tutte le umiliazioni e le incomprensioni, ferire ed essere ferita (quando ho torto invece cerco di insabbiare tutto, oppure racconto del barometro). Dipenderà dalla mia infanzia, come dici tu, dipenderà dal fatto che quando ero piccola nessuno mi diceva mai: hai ragione? Non lo so, ma so che siamo tutti molto complicati: molto indulgenti con le nostre ossessioni e molto intransigenti con quelle degli altri. Sempre pronti a fare a botte. “L’immagine che abbiamo l’uno dell’altro. Strati e strati di incomprensione”, scrive Philip Roth in Pastorale Americana. E invece l’immagine che abbiamo di noi stessi è sempre così presuntuosa, come me quando lotto per la mia ragione o per non ammettere che ho perso di nuovo il libretto delle vaccinazioni. Ci consola sempre Roth: “Rimane il fatto che, in ogni modo, capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando”. E’ così giusto e mi fa così soffrire, perché quindi nessuno mi dirà che ho ragione.

  

Annalena

Di più su questi argomenti: