Bambine bomba

Giulia Pompili

In Indonesia le madri del jihad hanno deciso di portare le figlie con sé, dentro la strage

C’è una foto che sta girando molto sui giornali indonesiani. Ritrae Puji Kuswati con i suoi quattro figli, qualche anno fa. Lei ha una mano posata sulla spalla del figlio maggiore, e ha uno sguardo rassicurante, da madre. Il figlio più piccolo ha un cerotto sulla fronte e abbraccia il fratello maggiore. Le due bambine hanno già un hijab colorato in testa, ma tutti insieme sono una famiglia normale. Chissà se domenica scorsa Puji Kuswati, quarantadue anni, ha preso per mano la figlia Fadhila di dodici anni e la figlia Pamela Rizkita di nove, mentre entravano nella chiesa presbiteriana di Surabaya, la seconda città più grande d’Indonesia. Secondo i racconti della stampa locale, sarebbe stata la madre ad attivare il detonatore allacciato sul corpicino di Pamela Rizkita, di cui voglio ripetere l’età: nove anni. Non erano sole: pochi minuti dopo anche il padre, Dita Sopriyanto, si è fatto esplodere in un’altra chiesa. I due fratelli hanno raggiunto una terza chiesa, stavolta cattolica, e insieme hanno concluso la missione della famiglia. Tutte e tre le esplosioni, hanno provocato tredici morti.

 

Il giorno dopo, sempre a Surabaya, Tri Murtiono e sua moglie Ernawati hanno preso i due figli maschi di diciotto e quattordici anni e la figlia femmina di sette, hanno raggiunto la stazione di polizia della città in motorino, e si sono fatti saltare in aria. Ma c’è un video in cui si vede l’angolo di una strada e i resti dell’esplosione. A un certo punto tra le macerie si intravede una piccola persona, che si alza in piedi in modo così innaturale che sembra voler ricomporre il suo aspetto umano. E’ una bambina. Le urlano qualcosa: lei è lì, a pochi passi dall’esplosione, e si muove disorientata. Alla fine un uomo le corre incontro, la prende in braccio e scappa. La figlia di Tri Murtiono e Ernawati è stata scaraventata via dall’esplosione, e si è salvata. Chissà per quanto tempo è stata costretta a vivere in una casa dove i genitori nascondevano cinquantaquattro bombe.

 

I bambini che sono morti, ma anche quelli sopravvissuti. L’Indonesia, un paese a maggioranza musulmana eppure laico e progressista, da sempre si occupa dei secondi: un paio di anni fa la storia di Khairul Ghazali e la sua attività è diventata un modello per l’antiterrorismo di Giacarta. Ghazali era in prigione dal 2011, perché le sue idee radicali sull’islam avevano ispirato una rete di jihadisti di cui faceva parte. Un giorno sua moglie gli ha fatto visita in carcere e gli ha raccontato la verità: i nostri figli non possono più andare a scuola, vengono bullizzati e isolati perché nessuno vuole giocare coi figli di un terrorista. E’ così che Ghazali ha iniziato un percorso di deradicalizzazione che lo ha portato ad aprire a trenta chilometri da Medan una scuola per i figli dei terroristi, quelli che nessuno vuole intorno. Molti di quelli che provengono da famiglie radicali sono costretti a lasciare la scuola presto, perché devono servire i genitori, oppure vendicarli. La scuola islamica di Ghazali si occupa anche di loro. Se si è disposti a sacrificare la propria famiglia per il jihad, racconta Ghazali, allora bisogna rompere quel legame, fatto di affetti ma anche di insegnamenti e indottrinamento.

 

Ma gli attentati di Surabaya con figli al seguito non sono soltanto un pericoloso precedente. Secondo analisti come Sidney Jones, capo dell’istituto per l’Analisi dei conflitti di Giacarta, è il segnale che nell’estremismo indonesiano sta cambiando radicalmente il ruolo della donna. A eccezione di alcune province, l’Indonesia è un paese dove le donne contano, sono indipendenti, possono scegliere se indossare l’hijab o no, se bere un bicchiere con le amiche o no, se osservare il ramadan o no. Il significato di quel velo per ognuna di loro cambia. L’islam indonesiano permette alle donne di fare quello che vogliono, ma è questa la differenza più importante con l’islam mediorientale: in Indonesia le donne possono essere atee, o possono scegliere di trasformare l’intera famiglia in una famiglia di martiri. “Quando il gruppo estremista Jemaah islamiyah era al picco della sua influenza, poco prima degli attentati di Bali”, scrive la Jones sull’Interpreter tradotto da Internazionale, “intere famiglie erano devote alla causa, ma solo il maschio adulto era considerato un guerriero. Gli uomini di Jemaah islamiyah sposavano le sorelle o le figlie di altri esponenti dell’organizzazione o sceglievano la moglie nelle scuole dell’organizzazione, dove le ragazze venivano scrupolosamente indottrinate. Le donne erano madri, insegnanti, corrieri e a volte amministratrici delle finanze, ma quasi mai combattenti”. E i bambini? “Se venivano arruolati di solito accadeva perché erano abbandonati o orfani”. E’ con la nascita dello Stato islamico che il ruolo della donna cambia, perché “ha incoraggiato intere famiglie a spostarsi in Siria per permettere ai padri di combattere, alle madri di riprodursi, insegnare o curare i feriti e ai figli di crescere in uno stato islamico puro”: alcune donne indonesiane hanno aderito alla causa, sono diventate combattenti, e nella loro guerra portano i figli con sé, vicini, costretti a farsi esplodere insieme a loro.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.