Centro Islamico di viale Jenner a Milano (LaPresse)

Nessun attentato in Duomo

Alberto Schiavone

Un arabo con lo zaino, la necessità di inventarsi una storia, e la pancia di mia figlia: sarà migliore della mia

La figlia quindicenne di una coppia di amici si è invaghita di un coetaneo peruviano. Raccontavano a me e mia moglie, una sera a cena, dei tatuaggi, della musica reggaeton, della puzza di sigarette che avvertono quando lei ritorna a casa. Intuiscono, accettano, seguono. Ho confessato che quella musica non mi piace. Nemmeno a loro. Abbiamo riso. Sembravano sereni. Dovevano esserli.

   

Ritornando a casa io e mia moglie ne abbiamo chiacchierato. Ho ribadito che quella musica non mi piace. Ho detto “mi fa cagare”. Abbiamo riso. Siamo arrivati a casa. Ho preparato una tisana a mia moglie, lei è andata a letto serena. E’ al settimo mese di gravidanza, deve essere così.

     

Mi sono fermato a lavorare nel mio studio, ho pensato a mia figlia Teresa. Ho pensato a dove viviamo in questo momento, a Milano, zona via Padova. Immigrazione, kebab, moschea, lavanderie cinesi, i sudamericani con le birre. Sarà molto probabile che Teresa si invaghisca anche lei di un peruviano pieno di tatuaggi che ascolta reggaeton. Un figo. Il più figo della scuola, ha confessato la figlia dei nostri amici alla madre.

    

Di cosa ti preoccupi? Cosa è quel gorgoglio che sento nello stomaco?

    

La settimana scorsa camminavo nei pressi di piazzale Loreto. Vicino a un semaforo mi ha avvicinato un uomo di approssimativamente quarant’anni. Indossava jeans e un giubbotto, non ricordo di che marca o modello. Verde, o grigio. Portava uno zaino di quelli che usavo per andare a scuola, un Invicta anche se Invicta magari non era. L’uomo era arabo. Barba incolta. Non era tranquillo, sudava un poco. Mi ha chiesto da che parte fosse il Duomo di Milano. Gli ho detto che da lì ci sarebbe arrivato comodamente con la metro. Senza metro, mi ha risposto. Va bene, ma non so quali autobus ci arrivano. A piedi? A piedi è lunga, gli ho spiegato. Quanto? Venti minuti almeno. Non pareva spaventato. Da che parte? Gli ho detto sempre dritto. E’ andato. L’ho guardato camminare spedito nella direzione che gli avevo indicato. Lo zaino colorato gonfio del suo contenuto. Quale?

      

Stava certamente andando a farsi saltare in aria al Duomo. Ho raggiunto la fermata dell’autobus 56 e lentamente mi sono fatto accompagnare a casa. Ho controllato nel corso del giorno due o tre volte su internet se ci fossero notizie di cronaca rilevanti. Certo, un attentato in Duomo a Milano avrebbe occupato le prime pagine. Ma ho cercato anche nella cronaca cittadina. Niente. Ho finto divertimento, per quell’operazione stupida e gretta. Ho dato la colpa alla mia mania di trovare storie, trame, anche laddove non ce ne sono. Me lo dice sempre anche mia moglie. Ho molta fantasia.

    

Certamente sarà stato per quello. La necessità di inventarsi una storia. Perché se quel tizio si fosse fatto esplodere in Duomo l’importanza della vicenda si sarebbe spostata tutta su di me. Il vero conflitto addosso alla mia persona. Avrei potuto evitarlo? E lo avrei detto a qualcuno? O sarebbe stato un segreto inconfessabile portato per tutta la vita. Forse, in punto di morte, con mia figlia al capezzale (e mia moglie? Morta prima di me? O fuori in corsia di ospedale a piangere?) avrei finalmente liberato quel macigno. Riversandolo su di lei. Ti prego, perdonami. Papà, certo, non potevi farci niente. Nessuno avrebbe pensato che quell’uomo si sarebbe fatto esplodere. No, certo. Perché tu non ci avevi pensato, vero, papà? No, amore mio. Non ci avevo pensato. Figuriamoci.

   

L’istinto mi dice spesso che ho ragione. Non ci chiediamo mai se il nostro impulso sia sbagliato. Tendiamo a giustificarlo. Siamo sempre assolutori con noi stessi. E’ il motivo per cui ribadiamo al mondo la nostra intelligenza, lungimiranza, correttezza.

    

Vivo in un paese cialtrone, truffaldino per attitudine. Un paese che per essere migliore deve fare uno sforzo quotidiano impressionante. Non sempre riuscendoci. Devo dare un esempio a mia figlia, crearle un contesto per cui dalla sua pancia non arrivino fiammate pericolose. Sarà capace di controllarle come ho fatto io? Cosa proverà quando invece un moto dallo stomaco le farà provare vergogna, mentre dalla bocca le escono frasi opposte? E’ quello che mi domando quando sento le persone così sicure di quello che dicono. Invidio quelle certezze, pur chiedendomi se sono verificate. Eppure mi auguro che a mia figlia non succederà, e che una linea sicura unisca pervicacemente il suo cuore, la sua testa. La sua pancia. Il domani potrà avere soltanto i contorni del miglioramento. Siamo illuministi. Contadini illuministi che faticano ad imparare. Lei sarà meglio di me, ascolterò la sua pancia dire cose più giuste delle mie.

    

Alberto Schiavone, scrittore. Il suo ultimo romanzo è “Ogni spazio felice” (Guanda)