La statua di Cristoforo Colombo a San Antonio imbrattata di vernice (LaPresse)  

il bi e il ba

L'ortopedia linguistica della sinistra, che corregge le bozze alla storia

Guido Vitiello

Tra comunismo e progressismo. Due pagine di Steiner e Solzenicyn raccontano le derive cancellettiste e l'emendamento del canone letterario-filosofico secondo criteri moralistici, meglio di quanto faccia lo stereotipo del partito Ztl

Mi dice un amico politologo che uno dei temi su cui più si dovrà riflettere negli anni a venire è il rapporto di continuità e di discontinuità, specie sul piano della mentalità, tra il vecchio comunismo e il nuovo progressismo. Credo che abbia ragione. La risposta che va per la maggiore a destra, almeno per il caso italiano, è quella che fa capo ad Augusto Del Noce: il Pci, assicurano in tanti, è diventato un Partito radicale di massa.

   

La formula, di passaparola in passaparola, è ormai poco più che uno slogan, limato al punto giusto per incunearsi a perfezione nella grossolana vulgata sovranista-populista: la sinistra delle Ztl che dimentica le periferie, le élite surcigliose che snobbano il popolino, i partiti operai che voltano le spalle ai lavoratori delle fabbriche per combattere battaglie sui diritti civili sotto la guida morale dei lavoratori dello spettacolo – divi, cantanti, scrittori e influencer. Ma anche a risalire alla fonte, e a rileggere gli interventi di Del Noce scritti a ridosso della Bolognina – in particolare “La tentazione neoborghese del nuovo corso”, apparso sul “Sabato” il 25 novembre 1989 (ora nel volume “Cristianità e laicità”, Giuffrè 1998) – se ne ricava l’idea di una “capitolazione del comunismo al laicismo”, di una resa alla società consumistico-tecnocratica, di una rinuncia alla costruzione dell’uomo nuovo. Fosse davvero così, dovremmo brindare a champagne. Ma le mentalità sono ben più tenaci di quanto ci piacerebbe pensare, non le si scalza con un congresso o con un’abiura, e se c’è una cosa che nella sinistra postcomunista non è arrivata mai è proprio la laicità – come metodo prima ancora che come lista di obiettivi programmatici. Insomma, non sopravvaluterei lo spirito profetico di Del Noce. 

 

All’amico politologo suggerisco due pagine che trovo ben più chiaroveggenti – l’una in modo aperto, l’altra per vie criptiche e inconsapevoli, e che illuminano tendenze che riguardano tutta la sinistra occidentale. La prima viene da un romanzo breve di George Steiner, “Proofs” (“Il correttore”, 1992), scritto nel pieno della metamorfosi del Pci in Pds e ispirato alla figura del filologo Sebastiano Timpanaro. Il protagonista – chiamato di volta in volta il Gufo, il Professore, o il Correttore – deluso dai fallimenti sul terreno della storia ha confinato la sua passione utopistica nella correzione di bozze, inseguendo la “santità dell’esattezza”, la perfezione della pagina: “L’Utopia significa semplicemente l’esattezza! Il comunismo significa togliere gli errata dalla storia. Dall’uomo. Correggere bozze”.

 

Sembrerebbe un ripiegamento innocuo: l’edizione perfetta, a differenza della società perfetta, non richiede spargimenti di sangue, solo di inchiostro. Ma cosa accade quando, per via dell’imperialismo accademico della Theory postmoderna (una deriva che proprio Steiner aveva intravisto in un saggio di pochi anni prima, “Vere presenze”), filtra nella mentalità comune l’idea che le relazioni sociali e le architetture di potere siano nella loro essenza costruzioni linguistiche, strategie testuali, reti di finzioni e rappresentazioni? E’ allora che la figura del Correttore torna a essere funesta. Le vicende della cancel culture, gli esercizi di ortopedia linguistica e di ingegneria ortografica inclusiva, l’emendamento retrospettivo del canone letterario-filosofico secondo criteri moralistici ci appariranno come il tentativo utopistico di togliere gli errata da una storia riconcepita come insieme di testi, una storia dove la carne si è fatta verbo.

 

L’altra pagina che raccomando all’amico politologo è più che altro una felice coincidenza. Nel capitolo di “Arcipelago Gulag” dedicato all’industria carceraria e alla macchina inquisitoriale sovietica, Solzenicyn scrive: “Nel 1950, uno dei colonnelli più eminenti del Mgb (Ministero della sicurezza dello Stato), Foma Fomic Zelezov, dichiarò ai detenuti: ‘Noi non faticheremo a dimostrare la vostra colpa. Dimostrateci voi di non aver avuto intenzioni ostili’”. Ancora lui, Foma Fomic! Lì per lì ho pensato che fosse un battesimo di fantasia, ma Solzenicyn dice chiaramente all’inizio dell’opera che “uomini e luoghi sono chiamati con il loro nome”. Foma Fomic è l’eroe abietto del “Villaggio di Stepàncikovo” di Dostoevskij (ne ho scritto qui sul Foglio qualche settimana fa), un risentito cronico, permalosissimo e perennemente indignato, che si fa largo con i mezzi del moralismo passivo-aggressivo e dello sputtanamento del prossimo in nome della virtù; si sente sempre in credito morale, e da quella posizione non ha remore a lanciare accuse da cui gli altri si affannano a discolparsi, senza peraltro che lui si ritenga mai soddisfatto dell’ammenda.

 

Ebbene, prima che Leonardo Sciascia in “Candido” facesse risuonare quel buffo nome russo tra i ranghi del Pci siciliano, Foma Fomic era stato davvero un funzionario sovietico, la cui specialità evidentemente era la presunzione di colpevolezza e di superiorità morale. Perciò, quando vi trovate a cospetto di qualcuno che vi accusa di connivenza “oggettiva” con le ingiustizie del mondo, e che dalla schedatura di certe vostre caratteristiche – per esempio l’essere bianco, abile, maschio, eterosessuale, ecc. – deduce la vostra partecipazione consapevole o inconsapevole a crimini terribili (il razzismo sistemico, la cultura dello stupro) da cui una vita intera di ravvedimento operoso non basterà a mondarvi del tutto, non abbiate neppure un attimo di soggezione: è sempre lui, Foma Fomic, personaggio letterario diventato archetipo storico, verbo che si è fatto carne.