La guerra dei Ros

Riccardo Lo Verso

Favori ai boss mafiosi, ostacoli alle indagini: quando i carabinieri accusano altri carabinieri. Sottufficiali contro ufficiali. E viceversa, visto che i secondi si sono sentiti diffamati dai primi e li hanno controdenunciati. Lunghe storie finite sempre nel nulla.

Soffiate che fanno scappare pericolosi latitanti, fonti confidenziali zittite, perquisizioni non eseguite, papelli nascosti e dichiarazioni che vanno in direzioni opposte. A leggere i resoconti giudiziari ci sarebbe da credere che negli ultimi decenni in Sicilia abbia agito un manipolo di manigoldi in divisa da carabiniere.

 

Ad accusarli nella migliore delle ipotesi di mentire o, nella peggiore, di essere in combutta con i mafiosi sono stati altri carabinieri. Sottufficiali contro ufficiali. E viceversa, visto che i secondi si sono sentiti diffamati e calunniati dai primi e li hanno controdenunciati. Eppure le indagini, senza che siano stati risparmiati uomini ed energie, non hanno prodotto risultati. Volendo usare le parole dei pubblici ministeri di Palermo, “secondo un criterio di ragionevolezza, la situazione probatoria è tale da fare prevedere l’inutilità del giudizio”. Insomma, tanto rumore per nulla. L’evoluzione della giurisprudenza della Corte di cassazione ha stabilito che i processi si celebrano, solo ed esclusivamente, quando si può superare “lo stato di inadeguatezza, di incertezza o di contraddittorietà dell’accusa”. Un principio di ragionevolezza che mesi fa ha obbligato i pm di Palermo a chiedere l’archiviazione dell’inchiesta per nove carabinieri. A cominciare da quelli accusati da Saverio Masi e Salvatore Fiducia, due marescialli in servizio a Palermo, di avere ostacolato le indagini per la cattura di Bernardo Provenzano, Matteo Messina Denaro e nascosto la prova che la stato avesse trattato con i boss. Nessun favoreggiamento a Cosa nostra sarebbe stato commesso e neppure Masi e Fiducia avrebbero diffamato o calunniato i colleghi contro cui hanno puntato il dito. Il nulla, appunto. Sul campo restano le macerie di una battaglia durissima che non è ancora finita.

 

Non è casuale che l’ultimo atto dello scontro interno all’Arma potrebbe andare in scena al processo sulla trattativa stato-mafia. Più che un processo è la summa delle presunte nefandezze. Carabinieri che scendono a patti con i carnefici, per conto di ministri della Repubblica, per fermare le stragi mafiose. Quello sulla Trattativa è il contenitore dove confluiscono ricordi, racconti, ombre e sospetti in parte già dissipati altrove.

 

La Corte d’assise potrebbe mettere a confronto il maresciallo Masi e il tenente colonnello Antonello Angeli dopo che, sentiti singolarmente, hanno fornito versioni differenti sulla presenza del papello – l’elenco delle richieste dei boss allo stato – nella cassaforte della casa di Massimo Ciancimino. Masi sostiene che Angeli non solo gli disse di avere visto il documento, ma che gli fu pure impedito di sequestrarlo. Angeli, però, smentisce Masi: “Il papello? Mai visto”. Della faccenda la magistratura si è già occupata. Era il 2014 quando il giudice per le indagini preliminari di Palermo Riccardo Ricciardi archiviò l’inchiesta su Angeli accusato di favoreggiamento. Qualche riscontro, solo indiretto però, al racconto di Masi era stato trovato nei ricordi dei colleghi, ma i fatti risalgono al 2005. Dunque, oltre il limite della prescrizione.

 

Si trattava della stessa inchiesta che coinvolgeva, tra gli altri, Mario Mori. Nel caso del generale ed ex comandante del Ros il gip prese atto che, nel frattempo, per gli stessi fatti l’ufficiale era già finito sotto accusa in due processi. Nel primo, quello per la mancata cattura di Bernardo Provenzano a Mezzojuso, Mori è stato assolto sia in primo grado che in appello. Il secondo processo, invece, è quello sulla presunta Trattativa. Assolto Mori lo è stato anche dall’accusa di avere favorito Cosa nostra ritardando la perquisizione nella villa di via Bernini, ultimo rifugio palermitano di Totò Riina. Così come è stato scagionato Sergio De Caprio, il capitano Ultimo che ammanettò il padrino corleonese. L’assoluzione non è bastata a dissipare le ombre che, da via Bernini in poi, sono piovute a cascata in altri processi. Di tanto in tanto si viene risucchiati nel buco nero dei misteri.

 

Qualcuno strilla che in Italia non si ha il coraggio di conoscere la verità. Mentono, sapendo di mentire. Perché i processi sono stati celebrati e altri sono in corso. Perché anche sulle denunce di Masi e Fiducia non sono state risparmiate forze ed energie.
Con le sue denunce Masi si è autoinserito nella schiera dei carabinieri duri e puri. Movimenti antimafia, scorte civiche e agende rosse hanno riconosciuto in lui l’aura del perseguitato anche quando incappò in una condanna. Accolsero al grido “vergogna, vergogna” la lettura del dispositivo della sentenza con cui gli sono stati inflitti sei mesi di carcere per falso. La vicenda risale al 2008 quando Masi lavorava al nucleo investigativo del comando provinciale dei carabinieri di Palermo. Beccò una multa con la sua macchina privata e provò a farsela togliere sostenendo che, come spesso accadeva, stava facendo un pedinamento di servizio. Nei tre gradi di giudizio la sua versione non è stata creduta. Anche la multa, a dire del maresciallo, sarebbe frutto di quel complotto che ha ricostruito deponendo al processo sulla Trattativa. Masi, infatti, è stato citato come testimone dal procuratore aggiunto Vittorio Teresi, dai pubblici ministeri Antonino Di Matteo, di cui Masi è anche il capo scorta, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Testimone delle presunte nefandezze poiché Masi, così racconta, avrebbe potuto arrestare Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro. I manigoldi di cui sopra, però, glielo avrebbero impedito.

 

Il conflitto interno all’Arma dei carabinieri è frutto delle denunce di Masi e di Salvatore Fiducia: se si tratti di merito o colpa va lasciato al libero e soggettivo convincimento. I pm, però, è questo è un dato di fatto, le giudicano inutili per celebrare un processo. Il dubbio è dovuto alla recentissima richiesta di archiviazione della Procura della Repubblica che deve essere ancora accolta, ma può anche essere respinta dal giudice per le indagini preliminari. D’altra parte la storia giudiziaria degli ultimi anni è zeppa di processi iniziati con una richiesta, non accolta dal giudice, di archiviazione da parte dei pm, che poi cambiano idea e chiedono le condanne in processi che finiscono con le assoluzioni.

 

I pubblici ministeri sono arrivati alla conclusione che “gli elementi acquisiti nel corso delle indagini preliminari non sono idonei a sostenere l’accusa in giudizio” poiché si discute, in sostanza, di vicende avvenute “in epoca ormai remota e alle quali non hanno assistito se non i diretti interessati”. Insomma, non si può fare un processo senza testimoni disinteressati. Siamo di fronte “all’impasse rappresentata dalla coesistenza di affermazioni incompatibili e non riscontrabili”. Una cosa sono le parole, seppure vestite dell’autorevolezza di una denuncia in divisa, un’altra i fatti, gli unici che meriterebbero un ulteriore impegno processuale. Ulteriore perché di impegno gli investigatori ne hanno già messo parecchio. Sostenere il contrario sarebbe ingeneroso nei confronti dei sei pm che chiedono di chiudere il caso con un nulla di fatto. E cioè Francesco Grassi, Pietrangelo Padova, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia, con i visti dei procuratori aggiunti Teresa Principato e Leonardo Agueci. Tartaglia e Del Bene, dunque, avranno una doppia occasione per valutare le parole di Masi visto che rappresentano l’accusa anche al processo sul presunto e scellerato patto fra boss e pezzi delle istituzioni. Resta da capire se l’approccio criticò emerso nella richieste di archiviazione cambierà quando i singoli episodi saranno incastonati nel quadro complessivo della Trattativa.
La denuncia di Masi, presentata nel 2013, si apriva con le accuse rivolte al maggiore Gianmarco Sottili, allora comandante del Reparto operativo dei carabinieri di Palermo. Per colpa sua Masi non avrebbe fatto in tempo a piazzare delle microspie in un casolare di Ciminna dove avrebbe bazzicato l’allora latitante Provenzano. L’ordine di Sottili avrebbe “prodotto l’irreparabile interruzione della attività finalizzate alla cattura di Provenzano, attività che il Masi stesso avrebbe posto in essere in autonomia a partire dal 2001”.

 

Per cercare di capire come andarono le cose è stata messa in moto una macchina investigativa enorme. Basti pensare che sono stati sentiti tutti coloro che lavorarono con entrambi i carabinieri. Risultato: “Nessuna delle ventotto persone assunte a sommarie informazioni è stata in grado di riferire circostanze utili alle indagini o confermare le dichiarazioni di Masi”. Un solo maresciallo riferì di avere sentito parlare dell’imprudenza dei carabinieri del Ros che si sarebbero fatti notare nella zona del casolare durante il sopralluogo per piazzare le cimici. Ma a riferirglielo fu lo stesso Masi. Così come “nessuna delle persone sentite dai difensori di Masi ha ricordato in alcuno modo l’episodio descritto da Masi stesso”.

 

Altro episodio denunciato dal maresciallo avrebbe avuto per protagonista Michele Miulli, capitano di una sezione investigativa del Comando provinciale di Palermo. Sarebbe stato Miulli a impedire a Masi di piazzare una microspia in un centro per demolizioni di auto. Arrivarono ai ferri corti. Talmente corti che nessuno se ne accorse. Neppure i due poliziotti che i carabinieri trovarono nell’officina, i quali hanno escluso che i carabinieri stessero litigando. Tra l’altro erano gli unici due testimoni diretti. “Tutti gli innumerevoli appartenenti al reparto operativo dei carabinieri – scrivono i pm – hanno negato la loro personale partecipazione all’attività”. Qualcuno ne aveva solo sentito parlare. E dunque? “Non sono emersi elementi investigativi suscettibili di avvalorare o corroborare alcuna delle due ricostruzione opposte”. Né favoreggiamento, né calunnia.

 

Quando volavano parole grosse, Masi e il suo interlocutore di turno erano sempre da soli. Accadde pure quando il maresciallo disse che un suo collega, Antonio Nicoletti, lo strattonò per un braccio mentre gli spiegava accorato che “noi non abbiamo nessuna intenzione di prendere Provenzano”. Dell’episodio Masi parlò con il suo capitano Fabio Ottaviano che sua a volta riferì al maggiore Sottili. Il risultato fu, secondo Masi, un invito a non mettere a verbale il battibecco avuto con Nicoletti.
C’è poi il capitolo che riguarda Matteo Messina Denaro. Al processo sulla Trattativa Masi ha raccontato che nel 2004 incrociò il latitante in una strada di Bagheria. Era in compagnia di una donna, a bordo di una macchina che entrò in una villa. In quel caso sarebbe stato il capitano Michele Miulli, d’intesa con Sottili, a decidere di fermare l’indagine. Nella richiesta di archiviazione, però, i pm scrivono che “è stato accertato che sui soggetti segnalati dal Masi in occasione dell’incontro fortuito con il latitante, un’attività di indagine era stata avviata, seppur con esiti negativi”. La conclusione appare ovvia: “I fatti indicati da Masi non sono stati riscontrati né appaiono alt senza considerare che il reato sarebbe in ogni caso prescritto”.

 

A rincarare la dose ci ha pensato Salvatore Fiducia. Nel 2001 il carabiniere era in contatto con una fonte confidenziale, nome in codice Mata Hari. Si trattava della moglie di uno storico capomafia di Corleone, che diceva di conoscere gli spostamenti e i covi di Binu Provenzano. Durante un sopralluogo nelle campagne di Trabia, Mata Hari e il militare furono bloccati da un uomo armato. Poi la rivelazione: “Provenzano aveva deciso di costituirsi, ma alcune persone a lui vicine lo hanno convinto a cambiare idea”.

 

Ancora una volta Sottili e Nicoletti incarnano il ruolo dei cattivi in divisa. Avrebbero sottovalutato le segnalazioni e invitato Fiducia a rinunciare all’attività investigativa. Le cose sarebbero andate in maniera diversa alla luce della parole dei pm. In quegli anni i vertici del comando provinciale avevano imposto che i componenti delle diverse sezioni investigative non si scambiassero i dati. Una direttiva “verosimilmente finalizzata alla tutela della riservatezza di indagini molto spesso delicate che poteva comportare che i componenti di una sezione, una volta effettuate segnalazioni di interesse, non conoscessero gli sviluppi effettuati da altre sezioni”. Fiducia si occupava di indagini per droga e rapine. Dunque, non di criminalità organizzata. “Ne consegue – concludono i pm – che Fiducia (e la considerazione deve valere anche per quanto concerne i fatti denunciati da Masi) possa avere scambiato il mancato incarico di proseguire negli approfondimenti investigativi per un’indebita interruzione delle attività”.

 

Non resta che attendere per sapere se anche il gip la penserà come i pm. Nel frattempo seguono il loro corso altre querele per diffamazione. Sotto processo sono finiti Fiducia e Masi in compagnia dell’avvocato Giorgio Carta. Convocarono una conferenza stampa, a Roma, nel corso della quale avrebbero espresso “giudizi pesantemente lesivi della reputazione” degli ufficiali Giammarco Sottili, Michele Miulli, Fabio Ottaviani e Stefano Sancricca. Anche Sottili, a sua volta, avrebbe diffamato Masi e Fiducia quando disse, in estrema sintesi e al netto delle parole più dure, che le loro erano solo chiacchiere. Chiacchiere restano, infatti, senza i necessari riscontri. E con le chiacchiere non si fanno i processi.