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Le macerie di Mafia capitale

Massimo Bordin
E’ esistita a Roma un’organizzazione di tipo mafioso capace di condizionare con la sua forza di intimidazione l’amministrazione della città? Cosa non torna dopo venti mesi di processo.

Lo scorso 21 luglio il processo Mafia capitale è andato in ferie e riaprirà i battenti il 12 settembre. Poi ancora una manciata di mesi e si arriverà a sentenza. I personaggi che hanno popolato le udienze nel ruolo di imputati e testimoni troveranno la loro collocazione nel dispositivo stilato dal tribunale, ma non è questa la questione più importante. Il problema da risolvere, la domanda principale cui dovrà rispondere il collegio giudicante è di carattere generale: è esistita a Roma una organizzazione di tipo mafioso capace di condizionare con la sua forza di intimidazione l’amministrazione della città? Non si parla di una infiltrazione di cosa nostra, della ‘ndrangheta o della camorra negli affari dell’amministrazione comunale. L’ipotesi della procura riguarda una specifica e sostanzialmente autoctona organizzazione criminale, composta da politici, imprenditori e malavitosi locali, che occasionalmente entra in contatto con le enclave mafiose, camorriste o ‘ndranghetiste pur presenti nella capitale ma vive una propria vita autonoma.

 

Una sorta di quarta, o quinta considerando la “sacra corona” pugliese, organizzazione mafiosa presente nel nostro paese. Una mafia che parla romanesco e vede partecipi politici di diversi e opposti schieramenti, fino al massimo rappresentante della città dal 2008 al 2013, l’ex sindaco Gianni Alemanno. Questa almeno l’ipotesi di partenza quando il 2 dicembre 2014 vengono eseguiti i primi 37 arresti. L’operazione era stata battezzata dai carabinieri del Ros “Mondo di mezzo”, prendendo spunto da una intercettazione, ma la stampa e i Tg la chiameranno subito “Mafia Capitale” e c’è un motivo che riguarda un singolare prologo svoltosi 48 ore prima degli arresti. Al teatro Quirino si svolge un convegno del Pd romano con un ospite d’eccezione, il procuratore capo Giuseppe Pignatone. Il suo intervento è una requisitoria contro il mondo politico della capitale, Pd compreso, e stupisce i giornalisti che conoscono la riservatezza del magistrato e la sua contrarietà alle intemerate dai palchi di partito care a molti suoi colleghi che infatti non lo amano.

 


Il procuratore Giuseppe Pignatone (foto LaPresse)


 

Il procuratore delinea un quadro effettivamente desolante della legalità e della correttezza amministrativa nella capitale, ma non si ferma a questo. “Le regole sono importanti ma sono le persone che fanno la differenza”, dice a una platea di rappresentanti e amministratori del partito che governa città e regione. E poi aggiunge: “Le indagini hanno dimostrato la presenza della criminalità organizzata di tipo mafioso di almeno due organizzazioni a Ostia, una delle quali collegata a cosa nostra, pronte a far ricorso alla violenza” mentre “a Roma ci sono altri mezzi, c’è la corruzione” e “esiste il rischio di un accordo fra mafia e altro, di un patto che non si basa sulla paura ma sulla reciproca convenienza”: un patto in cui “il politico è in una posizione di forza rispetto al mafioso”.

 

E’ praticamente l’esposizione dell’ipotesi accusatoria alla base della imminente retata fatta di fronte a chi sta per restarci impigliato. Cosa è preso al solitamente riservato e alieno dalle ribalte dottore Pignatone? Il Corriere della Sera riporta queste frasi del procuratore e quando due giorni dopo scattano le manette il collegamento col discorso del Quirino appare scontato. Esiste una mafia-capitale. E’ l’ultimo anello di una preparazione mediatica a base di inchieste giornalistiche, libri di docu-fiction e perfino film. Dunque l’impatto del processo nell’opinione pubblica è altissimo, le attese sono adeguate e il discorso del Quirino ha finito per trasferire sull’inchiesta una sfumatura politica. Una piovra domina Roma come ha dominato Palermo, ma la testa della piovra romanesca è fatta direttamente di politici che sono “in una posizione di forza rispetto ai mafiosi”. Tutto questo però si regge su un articolo del codice penale, quello che punisce le associazioni di stampo mafioso. Se gli imputati che ne sono gravati se lo vedranno confermare in sentenza sarà non solo un problema di pene aumentate per loro ma di conseguenze politiche per la città, che del resto già ci sono state con la caduta della giunta e le elezioni vinte dal M5s.

 

A questo punto del processo è possibile già fare un primo bilancio e capire qualcosa degli sviluppi futuri. Con l’estate siamo arrivati a un giro di boa del dibattimento con il passaggio ai testi citati dalla difesa degli imputati. Quelli dell’accusa sono già stati sentiti tutti. Restano da sentire ancora gli imputati, certo, ma è difficile pensare che dai loro interrogatori possa venir fuori qualche elemento decisivo per l’accusa. Succede nei film ma nei processi veri quasi mai. Dunque si può dire che l’accusa le sue carte le ha giocate tutte con i suoi testimoni. Come spesso capita, l’attenzione dei media, massima nel momento istruttorio, quando tonnellate di intercettazioni vengono abitualmente riversate sui giornali, quando i protagonisti compaiono in carne ed ossa in un’aula giudiziaria comincia a spostarsi dalle prime pagine alle proverbiali tre colonne in cronaca. In questo caso c’era anche una giustificazione. Passate le prime udienze, dense di questioni procedurali ma anche di aspetti di colore come per esempio la richiesta di costituzione di oltre sessanta parti civili due terzi delle quali respinte dal tribunale, per il resto, a parte qualche fuoco d’artificio degli avvocati difensori, le udienze dibattimentali non hanno offerto molto di più di quanto già non si fosse letto sui giornali.

 

E’ difficile dire se sia un bene o un male ma questo processo ha una caratteristica quasi unica che lo distingue da tutti gli altri processi di mafia degli ultimi trentacinque anni: praticamente non c’è un pentito. O meglio, uno c’è stato ma assolutamente marginale nella architettura dell’ipotesi accusatoria e portato in aula dai pm più a far numero che come colonna portante dell’accusa. Peraltro la sua deposizione è stata molto zoppicante e rimane impressa nella memoria solo perché si è sentito uno strano pentito di mafia che parlava in perfetto romanesco. L’architrave della inchiesta sta piuttosto nelle intercettazioni, telefoniche e ambientali. Dunque, la lunga sequenza dei testi d’accusa ha visto sfilare numerosi ufficiali e sottufficiali del Ros dei carabinieri che hanno condotto l’indagine sul campo. Sono stati loro, sollecitati dalle domande dei pm, a spiegare al tribunale su cosa si fonda l’accusa di mafia.

 

Nella sua deposizione è in particolare il capitano Giorgio Mazzoli a precisare anche la scansione temporale con la quale si arriva a ipotizzare il reato di associazione mafiosa. Si tratta di una serie di intercettazioni ambientali di cui è oggetto Massimo Carminati nel dicembre 2012 nell’ambito di una indagine per sospetto riciclaggio. Viene fuori che Carminati è in contatto con alcune sue vecchie conoscenze dell’estremismo di destra che ora sono, con la giunta Alemanno, in posti di responsabilità in alcune aziende partecipate dal comune. Parlano di affari su telefoni che usano solo per quelle conversazioni fra loro e che cambiano frequentemente. Poi c’è una intercettazione ambientale che i carabinieri definiscono “programmatica” in cui Carminati spiega a un piccolo imprenditore edile, che vorrebbe forse essere suo complice ma in realtà appare una sua vittima, la famosa teoria del “mondo di mezzo”.

 

Infine, c’è una terza intercettazione nel gennaio 2013 dove Carminati nella sua auto, dove hanno piazzato una microspia, parla a un altro piccolo imprenditore edile, col quale è in affari e ora si trova anche lui sul banco degli imputati, dei suoi contatti con quelli che lavorano nelle partecipate comunali e pronuncia la frase “Semo proprio ‘na bella squadra”. Su queste basi la procura decide di procedere per il reato di associazione mafiosa. Non hanno Buscetta, ma Carminati che parafrasa Tolkien. E soprattutto non hanno cosa nostra o qualcosa che le somigli. Nel dicembre 2012 era uscita la copertina dell’Espresso che lanciava l’inchiesta di Lirio Abbate sui “quattro re di Roma”, divisa in quattro zone dominate dalla criminalità: Carminati, Casamonica, Fasciani, Senese. Nel processo mafia capitale si ritrova uno solo del poker di re. Di uno dei Casamonica il tribunale ha respinto la testimonianza. Fasciani, condannato per mafia in un altro processo dallo stesso tribunale che ora giudica Carminati, si è visto derubricare in appello il reato di mafia a semplice associazione a delinquere. Senese, un capo camorra stanziale a Roma, entra negli atti processuali per la registrazione di un diverbio con Carminati ma non è fra gli imputati.

 


L'arresto di Massimo Carminati


 

Se il processo fosse davvero “Mafia capitale” queste presenze dovrebbero documentare l’unicità dell’organizzazione mafiosa o almeno le interrelazioni fra le varie cosche. E’ quello che nel dibattimento è mancato. Nessuno pretende coppole e lupare ma un livello di intimidazione utilizzato per obiettivi adeguati agli standard mafiosi sì. Come vittime della violenza e delle minacce del gruppo, in dibattimento i pm hanno portato un imprenditore edile di Roma Nord, un gioielliere dei Parioli per una storia relativa al pagamento di tre Rolex, un autotrasportatore, il proprietario di un autosalone, un venditore ambulante, un pensionato vessato per tremila euro di interessi usurari, un orafo che doveva fare un affare in Africa finanziato da Carminati e poi sfumato. Quanto al “gruppo di fuoco”, capace di intimidire, oltre a Carminati c’è un più giovane ex estremista nero, poi divenuto rapinatore, una sorta di suo attendente, Riccardo Brugia. Talvolta, per esempio per terrorizzare il pensionato, si fa ricorso a un giovanotto che protesta con la stampa perché sostiene di non essere mai stato soprannominato “spezza pollici” e di cui Carminati parla nelle intercettazioni in termini non lusinghieri.

 

Certo nel dibattimento finora sono venuti fuori diversi reati contro le persone e contro l’amministrazione. Uno spaccato verosimile e inquietante di come vengano gestiti i campi Rom e l’accoglienza ai migranti. Il lobbismo molto spregiudicato di Salvatore Buzzi, uno dei Casamonica, che non verrà sentito nemmeno come teste, utilizzato in un campo Rom come mediatore sociale. E poi la gestione dei rifiuti, tema peraltro ancora di strettissima attualità. Insomma non si può dire che il processo sia costruito sul nulla e infatti nessuno lo sostiene. Il problema sta nel confezionamento tutto politico, in quella suggestione di una città conquistata dalla mafia e divenuta irredimibile. Tutto ciò, fin qui, dal dibattimento non è emerso e nemmeno nelle sentenze di altri processi collegati a questo che possiamo definire principale e “programmatico”, rubando l’aggettivo al capitano del Ros che abbiamo citato più sopra. Proprio quel processo alle famiglie Fasciani e Triassi di Ostia che il procuratore Pignatone cita nel suo discorso al teatro Quirino è stato, come già detto, riformato in appello. Ora il tribunale che giudica Carminati, Buzzi e compagni sa che dovrà usare, per condannarli per mafia, argomenti giuridici diversi da quelli usati per Fasciani e cassati in appello. Del resto un segnale significativo era già arrivato a proposito della posizione processuale dell’ex sindaco Alemanno, la cui richiesta di rinvio a giudizio, anche per associazione mafiosa, era stata presentata dalla procura romana lo stesso giorno della prima udienza del grande processo, con il massimo favore di telecamere e Tg. Solo che circa un mese dopo il gip, pur rinviando a giudizio l’ex sindaco per altri reati, fece cadere l’imputazione di mafia.

 

Si può dire in conclusione che l’estate consegna alla cronaca un processo iniziato di fatto da un palco di un convegno di partito con pretese che il suo svolgimento dibattimentale e altre vicende giudiziarie parallele stanno seriamente ridimensionando. Il percorso appare simile ad altri processi monstre nei confronti dei quali, come abbiamo scritto più sopra, proprio l’attuale procuratore capo di Roma aveva mostrato tutta la sua distanza, pagando anche dei prezzi non lievi. Pochi ricordano forse che il dottor Antonio Ingroia arrivò ad aprire un fascicolo presso la procura di Palermo per indagare sui modi della cattura di Bernardo Provenzano all’epoca coordinata proprio dal dottor Pignatone. Ingroia così riuscì a coniugare un processo, da lui perso in primo grado e in appello, contro chi, secondo lui, aveva evitato di catturare Provenzano a una indagine nei confronti di chi l’aveva assicurato alla giustizia. Pignatone non fece una piega e l’indagine, si fa per dire, finì nel nulla. Qualcosa però deve aver forse sedimentato. O forse esiste una sorta di maledizione palermitana.

 

Un’altra vittima, per così dire, di un certo modo di gestire l’azione penale fu Pietro Grasso quando rifiutò di seguire i consigli di Ingroia e Leoluca Orlando, e naturalmente Marco Travaglio su come perseguire l’allora governatore siciliano Totò Cuffaro. Accusarono Grasso di essere accomodante coi potenti. Grasso non gli dette retta e Cuffaro fu condannato e ha espiato la sua pena in carcere. Solo che poi Grasso non resistette alla tentazione di candidarsi alle elezioni in concorrenza con Ingroia e ora abbiamo un presidente del Senato discutibile mentre rimpiangiamo un magistrato bravo come pochi. Speriamo solo che anche a Roma non succeda qualcosa di simile.

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