Dopo la storica vittoria di Bilbao, il Torino di Giampiero Ventura è stato accolto da centinaia di tifosi nella notte di giovedì all’aeroporto di Torino (foto LaPresse)

Buona Ventura

Piero Vietti

Pochi tifosi del Torino ricordano con precisione dove erano la sera del 27 agosto 2011. Era un sabato, le previsioni del tempo parlavano di fresco in arrivo, e finalmente si cominciava a respirare. Pochi mesi prima il Torino Football Club aveva concluso una delle più brutte e dimenticabili stagioni.

Pochi tifosi del Torino ricordano con precisione dove erano la sera del 27 agosto 2011. Era un sabato, le previsioni del tempo parlavano di fresco in arrivo, e finalmente si cominciava a respirare. Pochi mesi prima il Torino Football Club aveva concluso una delle più brutte e dimenticabili stagioni della sua storia, piazzandosi all’ottavo posto in serie B. L’entusiasmo che cinque anni prima il presidente Urbano Cairo aveva trasmesso ai tifosi, prendendo il Toro ferito e fallito e salvandolo dall’estinzione, si era spento dopo una brutta retrocessione, due anni di B e troppi allenatori e giocatori sbagliati. Il 27 agosto del 2011 il Torino va ad Ascoli per iniziare un’altra stagione di B, con tifosi poco ottimisti e in panchina un nuovo allenatore, Giampiero Ventura. Con lui il Bari ha appena vissuto l’anno migliore e quello più infame della sua storia. I 50 punti in serie A, l’Europa sfiorata giocando un calcio meraviglioso e la retrocessione frutto – si scoprirà poi – di partite vendute dai giocatori per il calcioscommesse. Ventura la retrocessione non l’ha vissuta sulla pelle: ha lasciato prima, quando la squadra non lo seguiva più. Arrivato a Torino nell’indifferenza, trova subito una contestazione della curva, esasperata dai recenti fallimenti e dalla scarsa programmazione.

 

Quel 27 agosto del 2011 siede sulla panchina del Toro per la prima volta in campionato. E dopo 4 minuti è già in svantaggio. Molti tifosi del Torino a quel punto pensano: “Perché non sono andato al mare?”. Quel sabato sera ad Ascoli inizia come erano finite tante partite prima di allora. Niente di nuovo, la solita sofferenza. Invece finisce 2-1 per il Torino. A fine partita, nello spogliatoio, Giampiero Ventura avrà guardato negli occhi tutti i suoi giocatori. Alcuni li conosceva già, altri aveva cominciato a conoscerli in ritiro, quell’estate. Avrà guardato negli occhi anche i giovani Kamil Glik e Matteo Darmian, arrivati dal Palermo, e Giuseppe Vives, trent’anni, un’onorevole carriera anonima alle spalle. Quella sera, nel piccolo spogliatoio della squadra ospite dello stadio di Ascoli. Dopo la prima vittoria del suo Torino. Che non era ancora il suo Torino. Li avrà guardati tutti negli occhi, soprattutto quei tre. Non poteva sapere. Non poteva immaginare.

 

Tutti i tifosi del Torino ricorderanno a lungo dove erano la sera del 26 febbraio 2015. Milleseicentododici giorni dopo. A milleottocento chilometri da Ascoli. Era un giovedì, e la pioggia scendeva violenta da due giorni su Bilbao, nei paesi baschi, in Spagna. Alla pioggia si era aggiunto il vento, e le prime file dello stadio San Mamés erano inavvicinabili per la troppa acqua che le bagnava. Milleseicentododici giorni dopo Ascoli, il Torino allenato da Giampiero Ventura scendeva in campo per la partita di ritorno dei sedicesimi di finale di Europa League, la vecchia coppa Uefa. Una coppa che i granata erano soliti frequentare un tempo, quando molti giocatori di oggi erano bambini, e qualcuno doveva ancora nascere. All’andata era finita 2-2. Per passare il turno i granata avrebbero dovuto vincere, o pareggiare almeno 3-3. Quasi impossibile, al San Mamés, là dove nella storia nessuna squadra italiana aveva mai sconfitto i padroni di casa dell’Athletic. Milleseicentododici giorni e più di cento panchine dopo Ascoli, Giampiero Ventura guardava i 50.000 tifosi baschi urlanti del San Mamés, e i 3.000 tifosi granata innamorati in quello spicchio lassù. E non aveva paura. Li avrà fissati negli occhi tutti, prima di uscire dagli spogliatoi, i suoi giocatori. E si sarà fermato un istante di più su quelli di Kamil Glik, il capitano, Matteo Darmian, titolare della Nazionale, e Giuseppe Vives, colonna generosa del centrocampo della squadra. A Bilbao, in Europa, milleseicentododici giorni dopo. Non poteva sapere. Non poteva immaginare. Eppure quella sera sapeva benissimo che il Torino poteva battere l’Athletic.

 

Se si vuole capire Giampiero Ventura bisogna guardare quella partita. Nella stessa situazione, qualunque allenatore italiano avrebbe fatto sfogare gli avversari, difendendosi, per poi provare il tutto per tutto nel secondo tempo, “tanto non abbiamo niente da perdere”. Quella sera il Torino comincia subito ad attaccare, invece. Spaventa l’Athletic, e passa in vantaggio su rigore per un fallo su Vives. Viene raggiunto a un minuto dalla fine del primo tempo, ma riesce a segnare il 2-1 prima dell’intervallo. Nel secondo tempo regge l’urto, sfiora il 3-1, ma subisce il 2-2. Neppure il tempo di capire quel che è successo e Darmian segna il 3-2. Alla fine, sotto la pioggia e il vento di Bilbao, Ventura abbraccia Glik in mezzo al campo. Il Torino è la prima squadra italiana a vincere a Bilbao. I tifosi allo stadio e a casa stanno piangendo. Sarà il tempo che passa – l’ultima volta in Europa avevano ventidue anni di meno – sarà che il calcio è una bestia strana, capace di innamorare e ringiovanire. Milleseicentododici giorni dopo Ascoli, Giampiero Ventura è entrato nella storia del Torino. Con il suo Torino.

 

Milleseicentododici giorni nello stesso posto sono un’enormità, nella carriera di Giampiero Ventura. Nato a Genova 67 anni fa (ma non diteglielo, non ci crederebbe nemmeno lui), ha allenato nel sottoscala del calcio per un paio di decenni. In silenzio, lanciando giovani che sarebbero diventati grandi e insegnando calcio a tanti che oggi allenano. Molta Liguria, poi Pistoia, Venezia, Lecce (con la doppia promozione dalla C1 alla A), Cagliari, Sampdoria, Udinese, ancora Cagliari, poi il primo Napoli di De Laurentiis, in C2, Messina, Verona. Quasi mai più di due stagioni nello stesso posto. Ha perso tante occasioni, questo mister dal carattere duro e ironico, a tratti insopportabile e magnetico insieme, così innamorato del suo lavoro che parlerebbe di calcio per ore senza stancarsi mai. Lo ha ammesso lui stesso. Fiorentina, qualcuno dice persino Juventus. Scelse la “sua” Sampdoria per questioni di cuore, per un punto non riuscì a portarla in A e tornò nel dimenticatoio. Nel 2007 il primo capolavoro della sua seconda vita, a Pisa. I playoff per salire in serie A, un calcio che in tanti cominciavano a copiare, e il lancio di un giovane talento di nome Alessio Cerci. Ai suoi allenamenti andava spesso Antonio Conte, per prendere appunti. Nell’estate 2009 Ventura venne chiamato a sostituire proprio Conte sulla panchina del Bari. Trovò una squadra plasmata sul suo credo, quel 4-2-4 che in Italia nessuno osava schierare, troppo spregiudicato e scoperto a centrocampo. Se ne andrà il 10 febbraio del 2011, commosso e grato per quegli anni. Pochi mesi dopo accetta la chiamata di Urbano Cairo, lascia il mare per le montagne e arriva a Torino. Un esperto di promozioni, un magnifico incompiuto, uno che ha avuto meno di quello che meritava. Veniva raccontato così, Ventura, prima di Torino. E ancora adesso c’è chi gli fa quella domanda: “Giampiero, quando in una grande squadra?”. Lui ci scherza su, dice “fate girare la voce”, poi torna serio e dice che lui una grande squadra già la allena, ma che “da grande” gli piacerebbe allenare una Nazionale, magari quella azzurra, dopo Conte.

 

Adesso però Ventura allena il Torino, e si capisce che ha una voglia matta di togliersi ancora qualche soddisfazione. Era difficile, a Torino. Quasi impossibile. Dopo i fasti di inizio anni Novanta avevano fallito in tanti, a conti fatti tutti. Anche chi era riuscito a riaccendere una fiammella del Toro che fu era durato poco, come Giancarlo Camolese, fatto fuori da gestioni scellerate che portarono malinconicamente all’insignificanza calcistica prima e al fallimento del 2005 poi. Appena arrivato al Torino Ventura disse che il suo obiettivo era quello di ridare orgoglio ai tifosi, far tirare di nuovo fuori le sciarpe e le bandiere per qualche vittoria importante, ricreare quella “cellula granata” che si era spenta nel tempo. Non parlava di grinta e tremendismo, però, né di storia da onorare. A tifosi abituati alla retorica del “vecchio cuore granata” – tanto utilizzata dagli ultimi allenatori, tutti miseramente falliti – queste parole suonavano stonate. Da troppi anni la letteratura che circonda il Torino sconfinava nello stucchevole e nell’astratto, e i continui paragoni con il passato soffocavano il presente. La nostalgia insanabile per Pulici e Graziani, per il Toro operaio degli anni Sessanta, per quello grintoso degli Ottanta e per quello vincente dei primi Novanta, avevano cristallizzato un’immagine inattuale di ciò che la squadra granata avrebbe dovuto essere. Perennemente schiacciato da questi paragoni (e martoriato da dirigenze insufficienti), ogni Toro decente degli ultimi vent’anni veniva abortito. Sembrava a un certo punto che si godesse a perdere e lamentarsi del destino avverso. Ventura ha capito tutto questo, e ha deciso di non lisciare il pelo dei tifosi dalla parte giusta. Lo ha fatto con dichiarazioni forti, a volte supponenti. “Questa squadra viene da Cittadella”, ricordava ai tifosi che chiedevano tutto subito, spiegando loro che la crescita sarebbe stata graduale, e che non si potevano pretendere gioco e vittorie da un gruppo che pochi mesi prima arava i campi infami della B. “Noi veniamo da Superga, dallo scudetto e dalla finale di Amsterdam”, rispondevano stizziti i tifosi. Ma Ventura non ci cascava, e faceva crescere il suo Torino, trasformandolo poco per volta in Toro.

 

La storia del club di Cairo si può dividere in avanti Ventura e dopo Ventura. Prima del 2011, lo ammette lo stesso presidente, errori in serie su direttori sportivi, giocatori e allenatori. Dopo, un’intesa quasi perfetta con l’uomo che ha preso il suo Torino e lo ha riportato tra le grandi. Già, perché se Ventura ha fatto quello che ha fatto con il Toro, è perché ha trovato una società che gli ha lasciato campo libero. Mai in dubbio, neppure quando i risultati non arrivavano, sempre difeso (a costo di prendersi i vaffanculo della curva), spesso accontentato sul mercato grazie al lavoro del ds Gianluca Petrachi. Ventura non sa fare il comprimario, è protagonista per natura, basta vederlo nelle interviste in tv. E’ probabilmente in Italia la figura più simile a quello che nel calcio inglese chiamano manager: allenatore, comunicatore, gestore del mercato. A Cairo uno così fa comodo: il Torino è ancora una società giovane, senza strutture paraburocratiche, e Ventura copre molti ruoli contemporaneamente. Ma anche a Ventura uno come Cairo fa comodo. A Torino è riuscito a portare un’idea nuova di calcio, non solo da un punto di vista tattico. Dopo anni di basta-la-maglia-sudata, i tifosi hanno ricominciato a vedere un gioco razionale, partite intelligenti, schemi ragionati e un’organizzazione che col tempo è diventata capace di reggere ogni urto. Ha sbagliato qualcosa in questi anni, Ventura, ma ha sempre saputo correggersi, imparando. Ha cambiato modulo (addio 4-2-4, adesso usa il 3-5-2), ruoli ai giocatori, convinzioni e modo di fare. Non sopporta un certo modo di fare giornalismo. Prima di Torino era abituato a realtà più piccole, dove chi scrive sui giornali è anche tifoso militante, acritico. Impossibile in una grande città, e in particolare a Torino, dove ogni cosa – soprattutto il potere – dice Juve. Ha dovuto prendere le misure, litigare, far capire che a lui certi giochetti mediatici non piacciono. Il carattere non glielo si può cambiare. Duro, orgoglioso, paterno quando serve, ma meglio non farlo arrabbiare. Nel calcio contano i risultati, e a Torino Ventura li sta ottenendo.

 

[**Video_box_2**]Eppure solo pochi mesi fa sembrava tutto finito. Dopo la stagione dell’anno scorso, con la qualificazione in Europa League arrivata grazie ai gol della coppia d’attacco Cerci e Immobile, il Torino ha ricominciato balbettante. Non ci sono più Cerci e Immobile, venduti per assecondare la loro volontà di “volare alto” (facendo cassa). I tifosi, delusi per le cessioni eccellenti, vengono messi alla prova dai rimpiazzi dei due bomber: le conferme degli inguardabili Barreto e Larrondo e l’acquisto all’ultimo giorno di mercato del non più giovane Amauri. Mentre nel girone di Europa League il Toro si fa rispettare, in campionato fatica a segnare e a vincere. Gioca male e sembra senza idee, un paradosso per Ventura. Alcuni acquisti estivi falliscono o tardano a sbocciare, e a fine novembre il Torino perde in casa con il Sassuolo ed è a 3 punti dalla zona retrocessione. La curva comincia a contestare. “Bollito”, “fuori di testa”, “rincoglionito”, “presuntuoso”. Sui forum e allo stadio Ventura viene additato come colpevole numero due, dopo il presidente, del momento fallimentare dei granata. Molti chiedono le sue dimissioni, sostenendo che ormai avrebbe perso il controllo dello spogliatoio incartandosi su scelte personali senza senso. Dopo il Sassuolo c’è il derby con la Juventus, allo Stadium. Tutti parlano di un Toro pronto a essere macellato, i tifosi chiedono almeno una prova d’orgoglio. Ventura mette in campo una squadra coraggiosa, che schiaccia i bianconeri nella loro metà campo, e che pareggia il gol di Vidal con un capolavoro di Bruno Peres. Solo una meraviglia di Pirlo al 94’ condanna i granata. Sconfitto ma applaudito, il Toro di Ventura ancora non lo sa, ma comincia da quel giorno una serie di dodici partite senza sconfitte.

 

La svolta avviene in due momenti. A fine dicembre, in casa con il Genoa. I rossoblù passano in vantaggio, ma vengono raggiunti e superati da una doppietta di Glik. A fine partita il capitano dedica la vittoria a Ventura, e si capisce che c’era una ferita da sanare, e che quel giorno è stata sanata. L’altro momento è a gennaio, a Milano contro l’Inter. Il Toro regge bene per 90 minuti, e a dieci secondi dalla fine Moretti segna di testa su calcio d’angolo. I granata vincono a San Siro 27 anni dopo l’ultima volta. In due mesi Ventura ha trasformato la squadra: venduti i giocatori che non avevano capito che cosa significa giocare in questo Toro, valorizzati i più giovani, e convinto i big – come l’ex juventino Quagliarella – a correre per la squadra. Improvvisamente il Torino non ha più paura di nessuno, e tre giorni dopo l’impresa di Bilbao batte il Napoli in casa. 1-0, gol di Glik. Giornali e tv cominciano a lodare il Toro di Cairo e Ventura, ma insinuano che a fine stagione i migliori faranno la stessa fine di Cerci e Immobile lo scorso anno. Ventura sa che da qui a giugno sarà un martellamento continuo (anche se Glik ha già detto che non vuole andarsene). Lui ci passa sopra. Sa che il suo ruolo è quello di far crescere i giocatori ed essere pronto a rimpiazzarli quando se ne vogliono andare, convinti di potere fare il salto di qualità. E’ successo con Ogbonna, che oggi fa panchina alla Juventus. E’ successo con D’Ambrosio, che oggi è uno dei tanti all’Inter. E’ successo con Cerci, che oggi fa panchina al Milan dopo la tribuna all’Atletico Madrid. E’ successo con Immobile, che oggi è riserva al Borussia Dortmund. Una volta il Torino era la squadra in cui i migliori diventavano mediocri, e quando se ne andavano giocavano bene. Oggi succede il contrario. In quattro anni Ventura ha mandato più giocatori in Nazionale di tutti gli altri allenatori granata negli ultimi venticinque anni. Esperienza, gavetta e una grande squadra di collaboratori. Una capacità di resistere all’umore della piazza come pochi, e un’intesa con la società come non l’aveva mai trovata prima d’oggi. Dopo la vittoria sul Napoli si è sbilanciato, dicendo che il Toro è pronto per diventare grande. Lo stadio di San Pietroburgo dista 2.917 chilometri da quello di Ascoli. Giovedì, volando in Russia per gli ottavi di Europa League contro lo Zenit, Ventura ripenserà ancora una volta a quel sabato sera di fine agosto di quattro anni fa. E sorriderà.

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  • Piero Vietti
  • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.