Il bianco e il nero

Piero Vietti

Per spiegare che cosa rappresenta il passaggio di Angelo Obinze Ogbonna dal Torino alla Juventus si può partire da uno dei luoghi comuni più usati da vent’anni a questa parte nel calcio: non esistono più le bandiere. Anche se non basta. Ogbonna è un ragazzo nigeriano di venticinque anni, italiano nato a Cassino che vive a Torino da quando ne ha 14, parla con accento ciociaro e ha più volte indossato la fascia di capitano della squadra che porta il nome della città piemontese e ha il colore del sangue e del vino Barbera. Ogbonna è sceso in campo 150 volte con la maglia granata, ha segnato un gol in serie B, e ha attraversato – tra i pochi a salvarsi – alcuni degli anni più tormentati del Torino.

Per spiegare che cosa rappresenta il passaggio di Angelo Obinze Ogbonna dal Torino alla Juventus si può partire da uno dei luoghi comuni più usati da vent’anni a questa parte nel calcio: non esistono più le bandiere. Anche se non basta. Ogbonna è un ragazzo nigeriano di venticinque anni, italiano nato a Cassino che vive a Torino da quando ne ha 14, parla con accento ciociaro e ha più volte indossato la fascia di capitano della squadra che porta il nome della città piemontese e ha il colore del sangue e del vino Barbera. Ogbonna è sceso in campo 150 volte con la maglia granata, ha segnato un gol in serie B, e ha attraversato – tra i pochi a salvarsi – alcuni degli anni più tormentati del Torino. Gioca bene, Ogbonna: la testa sempre alta, la giusta dose di flemma e grinta che fa sembrare normale un recupero impossibile, un piede sinistro educato, un ottimo colpo di testa – a spazzare l’area, come si dice – e una progressione difficile da arrestare. Gioca difensore centrale e terzino sinistro, e prima di infortunarsi alla schiena, lo scorso anno, era il direttore di una delle migliori difese della serie A, quella del Torino di Giampiero Ventura. Logico che uno come Antonio Conte, pronto a correre per lo scudetto e la Champions League, lo abbia voluto fortissimamente, tanto da costringere il direttore sportivo bianconero Giuseppe Marotta a bussare più volte alla porta del presidente del Torino Urbano Cairo e infine pagare 13 milioni di euro bonus esclusi (più di Tevez, per intenderci) per il giovane difensore.

 

I tifosi del Torino lo sapevano da tempo, che prima o poi se ne sarebbe andato. Lo avrebbero applaudito comunque, ringraziato, salutato anche con un po’ di orgoglio: prima di lui, l’ultimo giocatore granata ad avere indossato la maglia azzurra con un minimo di continuità era stato Roberto Mussi, nel 1994. Vent’anni sono tanti, troppi, e le sporadiche convocazioni di giocatori del Toro, giusto il tempo di un’apparizione durante un’amichevole, non avevano lasciato grandi ricordi. Con Ogbonna è stato diverso: sei presenze in Nazionale, alcune mentre giocava in serie B, e la convocazione per l’Europeo perso in finale con la Spagna, senza giocare ma nel gruppo. I tifosi quasi non ci credevano: dopo lustri di delusioni avevano tra le mani un campione cresciuto in casa, come non succedeva dai tempi di Lentini. Simbolo della sempre meno stentata rinascita granata nei tribolati – primi – anni di Cairo dopo il fallimento del 2005, Ogbonna compie oggi il tradimento più grande per un tifoso: andare a giocare per il Nemico, oltretutto dopo averlo chiesto insistentemente. Un affronto imperdonabile per una tifoseria che ancora considera la rivalità cittadina come la lotta tra Davide e Golia, fra troiani e achei, indiani e cow boy, popolo contro élite. A Ogbonna, però, tutto questo non dice nulla.

 

Angelo Obinze Ogbonna è un nero italiano, come Mario Balotelli, eppure opposto a Super Mario, di cui è amico. “Parliamo di razzismo?”, gli ha chiesto come da copione qualche mese fa Emanuele Gamba su Repubblica, in una bella intervista. La sua risposta non poteva essere più diversa dal cliché: “Parliamone, ma dico subito che non sono mai stato vittima di un episodio razzista. O magari non me ne sono accorto”. E ancora: “Se notate in me una diversità è un problema vostro, non mio. Percepite qualcosa che io non oso percepire, che non mi interessa percepire, che mi sorprende venga percepito”. Sorride, Ogbonna, quando capisce che l’interlocutore si stupisce nel sentirgli infilare i congiuntivi al posto giusto in una frase, o nel non ripetere a fine partita le solite banalità sull’importanza della squadra, il lavoro del mister o la promessa di avere già la testa al prossimo match. Sorride spesso, Ogbonna. Anche quando la parte non lo prevede. Anche quando ha appena perso un derby per 3-0 e va a scambiare la maglia con un avversario. Ecco, l’amore dei tifosi del Toro per Ogbonna è finito quel giorno, il primo dicembre 2012. Quello di Ogbonna per il Toro probabilmente non era mai sbocciato.

 

Angelo arriva a Torino nel 2002, appena quattordicenne, scoperto dall’allora coordinatore del settore giovanile granata Antonio Comi e acquistato dal Cassino per 3.000 euro. Angelo a Cassino ci è nato. Nessuna storia strappalacrime, nessun pallone di stracci che rotola per le strade polverose di un villaggio africano dimenticato da Dio: qualche anno prima suo padre viene in Italia a studiare architettura a Venezia. L’Italia gli piace, e decide di tornarci con la moglie, questa volta nel Lazio. Arrivato a Torino, Ogbonna si ritrova con compagni di squadra che giocano insieme da sette-otto anni e che sono cresciuti con un pensiero fisso, il derby con la Juve. E’ quella la partita che conta di più, soprattutto a livello giovanile, dove le differenze non sono così marcate come tra le prime squadre. Angelo viene bombardato da compagni e allenatori, che provano a insegnargli che la Juve è il nemico, che batterla vuol dire dare una svolta alla stagione, e che la maglia granata è diversa dalle altre. Angelo però non capisce – lo confesserà più volte, poi – tutto questo odio per l’altra squadra della città. Per lui, tiepido simpatizzante milanista, la partita con i bianconeri è una delle tante. I suoi compagni sono tifosi del Toro, quasi degli ultras – dirà – lui no. Per questo gli sembra tutto esagerato.

 

Ogbonna è già un freddo professionista del calcio moderno a quattordici anni. Non si tira mai indietro, però: è difficile trovare qualche sfida nella quale non abbia dato tutto. Semplicemente, per lui il calcio non è una ragione di vita, ma un lavoro. Ha amici lontani da quel mondo, nel frattempo diventa geometra e poi si iscrive all’università, come le sue due sorelle. Giurisprudenza, poi passa a Scienze politiche. La laurea non c’è ancora, ma non si sa mai. Nel frattempo, tre anni dopo il suo arrivo in Piemonte, il Torino fallisce. E’ l’estate del 2005, e Angelo si trova improvvisamente libero, come tutti i suoi compagni. Si sta già parlando di lui, diciassettenne, come di una promessa del calcio italiano, e la Roma gli propone un contratto. Poco prima del suo sì ai giallorossi, lo chiama Antonio Comi, l’uomo che lo scoprì a Cassino, uno dei pochi confermati dal nuovo proprietario Urbano Cairo: “Angelo, non andare via. Da’ fiducia a questo nuovo progetto”. Ogbonna resta. Ancora un anno di Primavera, poi qualche convocazione in prima squadra, l’esordio in serie A a diciotto anni (quando sceglie definitivamente la nazionalità italiana), un anno in prestito in serie C e poi le chiavi della difesa per oltre quattro anni, titolare insostituibile. La gente lo ama, alla lettura della formazione il suo nome è il più applaudito assieme a quello di Rolando Bianchi, e quando il mondo si accorge di lui – interviste, convocazione in Nazionale, elogi di allenatori ed esperti di calcio – il tifoso granata ne parla con orgoglio, come si faceva un tempo, quando dal settore giovanile del Torino uscivano tre o quattro campioni all’anno.

 

Eppure più cresce l’amore per lui, più lui resta freddo. Non ha mai fatto promesse, Angelo. Non ha mai giurato amore eterno alla maglia, né l’ha baciata dopo una vittoria – come fece un altro ragazzo delle giovanili, Federico Balzaretti, poche settimane prima di passare alla Juventus, dopo il fallimento del 2005. Non si è mai fatto incastrare dalle domande dei giornalisti: “Preferisco non rispondere – diceva a Tuttosport nel 2009 – se mi chiedete che farei nel caso in cui mi chiamassero i bianconeri. Perché fare promesse ai tifosi del Toro che poi magari non puoi mantenere?”. E ancora, questa volta a Repubblica: “Qui sono cresciuto in un ambiente accogliente, non troppo espansivo, che mi ha sempre messo a mio agio. Ma non gioco per gratitudine, lo faccio per me stesso e per le mie ambizioni, per i miei compagni. Lo faccio nel Toro come lo farei nell’Atalanta o nella Roma, perché è il mio lavoro ed è giusto così. Non si gioca per gratificare un popolo, ma per divertire la gente”. Solo una volta si fece scappare una promessa, in diretta su Radio Deejay: “Io alla Juve? Mai”. Ma il calcio è il cimitero dei “mai”, e anche i tifosi che provano ad attaccarsi a quella frase sanno che Angelo non ha mai avuto il cuore granata, anche se non riescono a spiegarselo. Non riescono a capire come sia possibile che uno come Rolando Bianchi – bergamasco arrivato a Torino venticinquenne – si sia invece calato nella parte dopo appena due stagioni, incarnando lo spirito tanto amato dalla curva Maratona. Bianchi è un orgoglioso, ragiona di cuore e pancia, e quando Paolo Pulici (un monumento, a Torino) gli disse: “Tu giochi nel Toro ma non sai che cosa è il Toro”, si è sentito ferito, e ha deciso di provare a capirlo, riuscendoci. Ogbonna no. Quando da ragazzino gli spiegavano che cosa voleva dire indossare quella maglia, lui sorrideva, e forse pensava “questi sono matti”. Non si gioca per gratificare un popolo. E’ vero, ma non ditelo a un granata. Non vi capirebbe.

 

Naïf, riservato, riflessivo, intelligente ed educato, Ogbonna sembra più un piemontese che un ciociaro con sangue africano. Torino è fatta apposta per lui: una città in cui un calciatore famoso può andare a fare la spesa al supermercato senza che la gente lo fermi per fotografarsi con lui o chiedere l’autografo è perfetta per uno così schivo. Si capisce che – potendo – preferisca restare qui. A Torino vive anche la fidanzata, ragione in più per non lasciare la città. Il bianconero, poi, è un’assicurazione sulla vita: soldi, successi, notorietà, il posto in Nazionale non più precario (far parte del “blocco Juve” apre porte normalmente sconosciute a chi gioca meglio ma altrove). Questo passaggio arriva nel momento giusto: a 25 anni un difensore è ancora giovanissimo ma già maturo.

 

E dire che Angelo avrebbe potuto andarsene già un anno fa, dopo la promozione in A. L’allenatore Ventura lo prese da parte e gli disse: “Tu hai tutto per giocare ad alti livelli, ma se vai via adesso sarai sempre un comprimario”. Angelo resta, un anno da titolare in serie A gli farà bene, si convince. Cairo, con cui Ogbonna ha un rapporto sincero da sempre, gli promette che se arriveranno offerte all’altezza e Angelo vorrà andarsene non sarà lui a impedirglielo. Ogbonna così diventa uomo copertina, a dispetto del suo essere riservato: tutti lo cercano per intervistarlo, il fatto di essere nero e italiano lo rende spendibile per far passare messaggi buonisti sul calcio e il razzismo. Lui è bravo a evitare di farsi strumentalizzare, e anche durante la comparsata sul palco di Sanremo – a premiare “l’italiano vero” Toto Cutugno – evita i luoghi comuni in cui Fabio Fazio vorrebbe farlo cadere: “La cittadinanza italiana automatica per gli stranieri che nascono qui? Non saprei, credo che ognuno debba poter scegliere”.

 

Ma è soprattutto nel calcio che per Angelo non vale lo ius sanguinis. Sembra un copione scritto da tempo, la storia di questo trasferimento clamoroso (mai un ragazzo delle giovanili granata, vicecapitano e nazionale, era passato di là), una partita decisa fin dall’inizio, fatta di piccole mosse per preparare la separazione: alla vigilia del derby del primo dicembre 2012, Ogbonna rilascia un’intervista alla Stampa. Nella pagina di fianco ce n’è una a un ex ragazzo delle giovanili bianconere, Claudio Marchisio, che racconta come per lui il derby sia comunque una partita particolare, dato che ne ha giocati tanti ed equilibrati nelle giovanili, proprio contro il Toro di Ogbonna. I tifosi granata aspettano questa partita da tre anni, e una vittoria da diciotto. Angelo però dà un’intervista strana, nella quale spiega che per lui questa è una partita sì particolare, ma non così diversa dalle altre, che lui punta al top e che al momento in Italia il top è la Juventus. Non le parole migliori da dire prima di un derby. Nei mesi a seguire i giornali scrivono che Antonio Conte lo vuole in bianconero, e ogni volta che possono i giocatori della Juve lo elogiano in pubblico. “Ogbonna vuole vincere? Allora venga da noi”, dice Marchisio. “Con lui faremmo l’ultimo salto di qualità”, gli fa eco Bonucci. “Se arrivasse sarei molto contento: è un giocatore fantastico”, lo benedice Buffon. Era tutto scritto. Alla fine di quel derby perso 3-0, Angelo va sorridente dall’amico Marchisio, lo abbraccia, i due si scambiano la maglia. Errore fatale. O scelta mirata. Da quel momento per i tifosi Angelo diventa “Gobbonna”, allo stadio lo si applaude di meno e dopo un infortunio che lo tiene lontano dal campo per qualche settimana si comincia a dire che sarebbe meglio venderlo, come nella favola di Esopo della volpe e l’uva. Fino all’ultimo si spera nel Milan, nel Napoli, nell’Arsenal. Tutto, ma non la Juve. Invece la strada è segnata da tempo.

 

Sull’episodio della maglia scambiata con Marchisio, Angelo ha una sua spiegazione che si porta molto bene nel calcio di plastica di oggi: “La differenza tra me e gli altri – ha confessato a chi gli chiedeva il perché di quel gesto che ha fatto infuriare i tifosi – è che in realtà molti fingono, io invece mi esprimo per quello che sono: non mi vergogno di chiedere la maglia al mio avversario a fine partita, è una cosa che fanno tutti. A differenza di altri però la maglia la chiedo sul campo e non nello spogliatoio. Perché devo fingere? Solo perché ai tifosi dispiace? Se la gente vuole un mondo finto, è un problema suo. Nello spogliatoio tutti si scambiano la maglia”. Perfetto, bellissimo, un pensiero che fa dire al commentatore collettivo che è giusto, basta con l’ipocrisia che alimenta la violenza negli stadi. Però il calcio non è solo uno sport. E’ spettacolo e analogia della vita: uno spettatore, pagando il biglietto, non può garantirsi il risultato finale, ma pretendere che in campo i giocatori facciano il proprio dovere sì. E se fare il proprio dovere vuol dire recitare una parte in campo, è giusto che si reciti. La storia dei derby di Torino è piena di risse, morsi, pugni in faccia e calci in culo prima, durante e dopo le partite. Fuori dallo stadio molti avversari erano amici, ma questo ai tifosi non interessava. L’importante era che incarnassero la lotta del più debole contro il più forte, che vivessero per un giorno i sentimenti dei tifosi. Ipocrisia? Forse, ma se uno sa che a quelle migliaia di persone che ti stanno guardando dispiace che tu abbracci sorridente l’avversario che ti ha appena trafitto, perché devi farlo? Chi snobba i tifosi è forse meglio di chi li illude?

 

“Vendi Ogbonna e preparati la tomba”, era la minaccia al presidente Cairo impressa su uno striscione esposto in curva un anno e mezzo fa. Oggi gli stessi tifosi si congratulano con Cairo per come è riuscito a costringere gli Agnelli a scendere a patti con lui, generando una plusvalenza incredibile con un giocatore pagato 3.000 euro undici anni fa. I tifosi lo dimenticheranno in fretta (non è il primo né l’ultimo giocatore a passare da una sponda all’altra del Po), convinti che chi calpesta la propria storia non meriti il conforto della memoria. Lui vincerà molto e ad alti livelli e con i soldi guadagnati dalla sua cessione il Torino si rafforzerà ancora. Un affare per tutti, in fondo.

 

E poiché il calcio è ironico, nell’accordo tra Cairo e Marotta è stato inserito anche l’attaccante Ciro Immobile, cresciuto nelle giovanili della Juve (senza mai giocare in prima squadra) e dichiarato tifoso bianconero: si aggregherà alla squadra allenata da Giampiero Ventura e sarà la punta del Torino nel prossimo campionato. E i tifosi granata già sognano un suo gol nel derby. Dopo un dribbling su Ogbonna.

 

Molti anni fa ci fu un altro giocatore cresciuto nel Toro che venne acquistato dalla Juventus. Era Roberto Cravero. L’avvocato Agnelli lo scelse per la difesa della sua squadra. Lui indossava da poco la fascia di capitano, aveva 24 anni ed era stato convocato in Nazionale – senza giocare ancora una partita – agli Europei. Il passaggio alla Juve gli avrebbe garantito un futuro sicuro in azzurro, probabilmente molte vittorie e più soldi. Cravero si presentò da Boniperti e lo ringraziò per la stima: “Spiacente, il capitano del Toro non può giocare nella Juve”, disse, “arrivederci”. L’anno dopo, da capitano, retrocesse in serie B e uscì dal giro della Nazionale. Era il 1988, l’anno in cui Ogbonna nasceva. Altri tempi e un’altra storia personale. Una scelta opinabile, certo. Ma provate a dargli dell’ipocrita.

Di più su questi argomenti:
  • Piero Vietti
  • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.