Carlo Nordio (Ansa)

Utopia

L'abuso d'ufficio, Nordio e quelle esondazioni che i pm non vedono

Cristiano Cupelli

Un reato che presenta una indiscutibile problematicità. Ma la soluzione più semplice a problemi complessi è spesso dietro l’angolo: tornare ai principi costituzionali che governano l’applicazione tassativa della norma penale, prendendoli sul serio

Senza sorprese e senza grossi scossoni è stato approvato dall’Aula del Senato il disegno di legge Nordio, che tra le altre cose, come è ben noto, abolisce il delitto di abuso d’ufficio. Si attende ora il passaggio alla Camera, ma l’esito appare scontato. Da più parti si sono sollevate voci critiche sulla scelta, al cospetto della indiscutibile problematicità della fattispecie, di abrogare, anziché riformulare nuovamente, l’art. 323 c.p. Senza entrare nel merito (o demerito) della riforma, la vicenda è indicativa di una preoccupante disfunzione di sistema. Al cospetto dei possibili vuoti di tutela che la soluzione dell’abolizione fa emergere, segnalati anche ieri dal Procuratore della Repubblica di Perugia Raffaele Cantone sulle pagine di Repubblica, non può non ricordarsi il cortocircuito ingeneratosi negli anni tra potere legislativo e giudiziario: una rincorsa del primo a immaginare formulazioni sempre più stringenti e una controreazione del secondo puntualmente diretta a riallargare le maglie interpretative di alcuni requisiti tipizzanti (dalla nozione di norme di legge o di regolamento violati ai residui margini di discrezionalità); un cortocircuito che ha sostanzialmente vanificato gli sforzi del legislatore e offerto oggi legittimazione e argomenti a supporto della tesi dell’abolitio criminis quale unica via praticabile per tranquillizzare gli amministratori pubblici.

E’ del resto evidente come – a partire dal 1997 – più che la formulazione della fattispecie sia stata la sua interpretazione ad allontanare da una immediata individuazione dei confini del fatto punibile, esponendo il pubblico funzionario al rischio concreto di frequenti coinvolgimenti in procedimenti penali per violazione dell’art. 323 c.p., nella maggior parte dei casi destinati ad esiti assolutori (come attestano impietosamente i dati forniti dal ministero della Giustizia), ma comunque in grado di depotenziare l’attività amministrativa. Non si va troppo distanti dal vero se si fa notare allora come, in fondo, il rispetto dei canoni di una corretta interpretazione, fedele ai vincoli testuali, alle scelte del legislatore e ai recenti richiami della Corte costituzionale, che ha più volte ribadito il peso del divieto di applicare la legge penale oltre i casi da essa espressamente stabiliti, avrebbe potuto allontanare burocrazia difensiva e paura della firma e scongiurare un esito – quello dell’abolizione secca – che rischia di apparire pericoloso e inutile: perché crea vuoti di tutela, appunto, lasciando scoperte ipotesi di strumentalizzazioni e prevaricazioni di pubblici funzionari a danno dei cittadini; ma anche perché rischia di stimolare una paradossale riespansione di altre fattispecie punite più gravemente (peculato per distrazione, corruzione e persino turbativa, a discapito dei passi avanti compiuti su tale fattispecie dalla Cassazione negli ultimi anni), spalancando porte e finestre a una nuova stagione di benintenzionate interpretazioni praeter legem. La soluzione più semplice a problemi complessi è molto spesso dietro l’angolo: tornare ai principi costituzionali che governano l’applicazione tassativa della norma penale, prendendoli sul serio. Utopia?