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L'anniversario

Antimafia della fuffa? Basta. Celebriamo i successi ottenuti

Claudio Cerasa

Alimentare dubbi senza fondamento sullo stato colluso è il modo peggiore per onorare la memoria dei magistrati eroi. Il ricordo di Borsellino e quella svolta necessaria: ribellarsi allo storytelling del complottismo giudiziario

Sarebbe un sogno se la commemorazione di Paolo Borsellino diventasse un’occasione per celebrare i successi ottenuti nella lotta contro la mafia dallo stato negli ultimi trent’anni e sarebbe un sogno onorare il magistrato eroe ucciso il 19 luglio del 1992 in via D’Amelio, a Palermo, insieme con gli uomini della sua scorta, mettendo in fila i risultati consistenti ottenuti in questi anni dall’antimafia dei fatti. Sarebbe bello, per esempio, ricordare che negli anni Novanta, in Italia, morivano circa 1.900 persone all’anno a causa di omicidi, organizzati per lo più dalla criminalità organizzata (oggi gli omicidi sono 300 all’anno). Sarebbe bello ricordare, ancora, che tra il 1982 e il 2017 sono state 17.391 le persone arrestate per reati connessi alla mafia, che tra il 1992 e il 2006 sono state 450 le condanne all’ergastolo per omicidi di mafia comminate nel solo distretto di Palermo, che sono stati 200 i consigli comunali e provinciali sciolti nello stesso periodo per infiltrazioni mafiose.

 

Sarebbe bello ricordare tutto questo, nell’anno in cui lo stato ha arrestato l’ultimo capo dei capi, Matteo Messina Denaro. Ma è difficile non temere che le cose vadano purtroppo in maniera diversa. Ed è difficile non temere che la commemorazione di Paolo Borsellino possa essere ancora una volta trasformata dall’antimafia delle chiacchiere in un’occasione utile per giocare con il complottismo giudiziario al fine di mettere ancora una volta lo stato sotto processo. Lo storytelling è sempre lo stesso. In questi anni, la mafia non è stata combattuta con la dovuta forza perché lo stato ha ripetutamente flirtato con la mafia stessa. Lo ha fatto, si dice, attraverso la famosa Trattativa. Lo ha fatto, si aggiunge, condizionando la politica. Lo ha fatto, si sostiene, dando seguito alle direttive della P2. Lo ha fatto, si continua, stringendo patti con i governi. Lo ha fatto, si  afferma, depistando le indagini. Sono anni che l’antimafia mediatica tende a screditare lo stato che lotta contro la mafia (tutti i processi sulla Trattativa si sono conclusi con un nulla di fatto) e sono anni che lo stato che lotta contro la mafia continua a rispondere con i fatti a un’antimafia delle chiacchiere che se avesse dedicato all’attività investigativa contro la mafia la stessa attenzione dedicata alla promozione del complottismo avrebbe certamente aiutato lo stato a ottenere successi ulteriori rispetto a quelli già imponenti realizzati (arrestando, prima ancora di Messina Denaro, anche i vari Bagarella, Brusca, Provenzano, Riina, Lo Piccolo, Nicchi).

 

Succederà anche oggi, quando il carrozzone del circo mediatico giudiziario cercherà di dimostrare ancora una volta che la politica non-vuole-affrontare-le-trame-oscure-del-nostro-paese (questa volta l’obiettivo sarà il governo Meloni, reo di voler riequilibrare i rapporti tra potere giudiziario e potere legislativo). E succederà ancora nelle prossime ore quando l’antimafia delle chiacchiere dimenticherà di ricordare, per esempio, come il famoso depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio avvenne grazie alle dichiarazioni di un pentito (Scarantino) che ha offerto per anni “ricostruzioni arbitrarie, ondivaghe e false” (lo hanno scritto nel luglio di due anni fa i giudici del tribunale di Caltanissetta) a cui hanno creduto per molto tempo gli stessi pm eroi dell’antimafia delle chiacchiere che hanno indagato sulla strage di via D’Amelio rincorrendo più farfalle che fatti (chiedere per credere a Nino Di Matteo e Annamaria Palma). Ci siamo abituati ormai da anni a vedere le commemorazioni degli eroi italiani uccisi dalla mafia trasformarsi in occasioni utili per celebrare il complottismo giudiziario (come ha fatto ieri sul Fatto quotidiano l’ex pm Roberto Scarpinato, oggi senatore del M5s). Sarebbe il caso di smetterla di assecondare lo storytelling complottista e di ricordare con coraggio, proprio oggi, trentuno anni dopo la morte di Paolo Borsellino, che alimentare dubbi senza fondamento sullo stato colluso con la mafia non è il modo migliore per onorare la memoria dei magistrati eroi ma è un modo come un altro per continuare a mancare di rispetto a chi la mafia ha scelto di combatterla occupandosi poco di farfalle e molto di fatti.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.