La riflessione
I rischi dei giudici fra interpretazione della legge e supplenza giudiziaria
Si avverte un’esigenza di misura e di equilibrio per non cancellare ogni linea di confine tra diritto e politica. Un impegno ineludibile per garantire il corretto funzionamento del sistema democratico
È capitato più volte a me di auspicare, anche intervenendo su questo giornale, l’apertura di un dibattito e di un confronto pubblico sul ruolo della giurisdizione nella realtà contemporanea. Purtroppo, questo auspicio è rimasto nella stampa quotidiana per lo più privo di risonanza. Ma con qualche significativa eccezione, costituita ad esempio da un recente articolo di Claudio Cerasa, cui è seguita una lettera di commento di Edmondo Bruti Liberati (cfr. il Foglio, rispettivamente, del 28 e 29/30 aprile scorsi). L’intervento di Cerasa è apparso sollecitato da una preoccupazione allarmistica, evidente già nel titolo: “Nuove resistenze. L’ideologo di Magistratura democratica indica ai colleghi un fronte per costruire un 25 aprile nelle aule giudiziarie. Brividi. Resistenza nelle aule giudiziarie. Aiuto!”. Perché tanto allarme?
A suscitarlo è stato un breve saggio di Nello Rossi – alto magistrato in pensione e ora direttore della rivista Questione giustizia, organo ufficiale del gruppo associativo di Magistratura democratica – contenente, in una prima parte, una sorta di consuntivo critico del cosiddetto uso alternativo del diritto teorizzato nei primi anni 70 del Novecento e, in una seconda parte, indicazioni prescrittive sul ruolo attuale e futuro della magistratura (il saggio è stato pubblicato nella rivista suddetta l’11 aprile 2023). Ad attrarre l’attenzione di Cerasa è stata soprattutto la parte propositiva del saggio in questione, incentrata sull’idea che la magistratura, in particolare quella di orientamento democratico, dovrebbe continuare a svolgere un ruolo indispensabile nel garantire i diritti e la dignità delle persone e delle molte minoranze che popolano le moderne società. In moltissimi campi della vita sociale ed economica – scrive Rossi – “è il giudiziario a intervenire in esclusiva, o almeno in prima battuta, nella ricerca di soluzioni di problemi inediti talora incancreniti dalla paralisi e dall’inerzia della politica” (esemplificativamente, si fa riferimento all’affermazione dei diritti di fine-vita, alle soluzioni prospettate sul versante dell’eguaglianza di genere, alla protezione dei diritti fondamentali dei migranti ecc.). A differenza però degli anni 70, il giudice democratico odierno – argomenta Rossi – non agisce più in sintonia con processi sociali di emancipazione e crescita democratica di cui si sentiva “parte”: trovandosi invece a operare in una società ormai frammentata, atomizzata, caratterizzata da una proliferazione di interessi particolari contrapposti e priva di valori comuni di riferimento, e in cui la Costituzione non indica più “una direttrice di marcia univoca”, lo stesso giudice, oltre a vivere in una condizione di maggiore solitudine, finisce col risentire – inevitabilmente – di quell’accentuato pluralismo culturale che connota più in generale l’intera vita politico-sociale. Ma di tale pluralismo il magistrato odierno è chiamato a farsi interprete – ammonisce Rossi – non nella veste di “magistrato burocrate”, bensì assumendo un ruolo attivo di promotore di diritti con scelte pur sempre ancorate “a valori indicati nella carta costituzionale e nelle carte dei diritti che si sono venute affermando”.
È davvero da temere questo tipo di attivismo giudiziario raccomandato da Rossi? Lo esclude, con convinzione e non a caso, Bruti Liberati (anch’egli alto magistrato in pensione e di risalente militanza in Md) nella lettera al Foglio sopra richiamata. In adesione a Rossi, egli ritiene che, specie nei periodi di crisi economica e sociale, la funzione di garanzia del potere giudiziario risulti esaltata. A mio parere, le cose sono forse ancora più problematiche e complicate di quanto non traspaia dallo scritto di Rossi, dalla reazione allarmata di Cerasa e dal successivo intervento di Bruti Liberati a sostegno di Rossi.
Il primo rilievo che si impone, è questo: il punto di vista di Rossi (e di Bruti Liberati), oltre ad apparire coerente con la risalente ideologia di Magistratura democratica, rispecchia una concezione di ruolo fondamentalmente comune in realtà ai giudici progressisti anche di altre democrazie occidentali contemporanee. Si assiste cioè, ormai da non pochi anni, a una diffusa tendenza del potere giudiziario ad assolvere – soprattutto nell’ambito della giurisdizione costituzionale e civile – una funzione di motore propulsivo di nuovi diritti, fungendo così da canale alternativo e supplementare rispetto ai circuiti politico-partitici, divenuti sempre meno capaci di soddisfare le aspettative di tutela e di giustizia dei cittadini, e specie di quelli appartenenti ai ceti sociali più svantaggiati. Da qui, l’assunzione da parte dei giudici di una funzione lato sensu politica, definibile – dal punto di vista della dialettica tra i poteri istituzionali – contromaggioritaria: in quanto, appunto, volta a correggere o integrare gli esiti di decisioni di politica legislativa basate su chiuse logiche maggioritarie di governo. Sulla diffusa tendenza di cui sopra esiste già, a livello internazionale, una letteratura pressoché sterminata. Volendo circoscrivere il discorso al nostro paese, mi limito a segnalare qualche nodo problematico da non trascurare.
A mio avviso, occorrerebbero in primo luogo un aggiornamento e un approfondimento della riflessione – non solo all’interno dell’ordine giudiziario – sul significato e le valenze della “politicità” intrinseca all’esercizio della giurisdizione: politicità che Magistratura democratica ha sin dalle sue origini teorizzato e rimarcato, e che i magistrati seguaci hanno assunto a presupposto giustificativo di prassi interpretative via via adottate nel concreto esercizio dell’attività giudiziaria. Siamo sicuri che sia ormai tutto chiaro e pacifico nel concepire portata e limiti della dimensione politica della giurisdizione, specie facendo riferimento alla realtà attuale? A ben vedere, l’interrogativo trae una ulteriore e non secondaria giustificazione proprio dal giusto rilievo di Nello Rossi, secondo cui le scelte politiche implicite nel fare giustizia sono oggi condizionate, più che in passato, dalla soggettività del singolo giudice-interprete quale effetto dell’accentuato pluralismo predominante nella società odierna: pluralismo che influenza lo stesso modo d’intendere i princìpi e valori costituzionali, per cui dalla Costituzione l’interprete di turno desume non una sola e univoca politica dei diritti in quanto costituzionalmente obbligata, ma quella politica dei diritti che egli ritiene preferibile in base alle proprie inclinazioni ideologiche, alle proprie preferenze politico-culturali e persino alla peculiare sensibilità personale. Insomma, le leggi vengono interpretate e i diritti vengono affermati – direi forse estremizzando – con un certo libertinaggio ermeneutico; il che aggrava il rischio di perpetuare quelle invasioni di campo o quegli sconfinamenti dell’intervento giudiziario che Claudio Cerasa – nella breve replica alla lettera di Bruti Liberati – seguita appunto a criticare.
Le obiezioni, e le connesse preoccupazioni di stravolgimento dei rapporti tra giurisdizione e politica, sembrerebbero a prima vista sottintendere un modo di concepire il diritto ancora abbastanza diffuso in particolare tra i cittadini comuni: una concezione cioè che propende a identificare il diritto soprattutto con l’insieme delle leggi di fonte politico-parlamentare, e a considerare compito giuridicamente legittimo dei magistrati quello di applicare le leggi secondo i loro contenuti espliciti, senza aggiungervi nulla che non sia espressamente previsto. E senza, di conseguenza, riconoscere per via giudiziaria diritti che non siano preventivamente previsti da norme emanate in sede politica. È questa una visione che sembra vicina alla vecchia ideologia giuridica di ascendenza illuministica, che pretendeva di ridurre il giudice a mera “bocca della legge”, negandogli spazi di discrezionalità interpretativa e – a maggior ragione – ogni potere integrativo o, peggio, creativo. Ma si tratta di una visione da tempo abbandonata dalle più evolute teorie del diritto, e anche non più compatibile col vigente modello costituzionale di democrazia: nel cui orizzonte i giudici sono tenuti a interpretare le stesse leggi ordinarie alla stregua dei princìpi e valori costituzionali (di matrice sia nazionale che europea), con conseguente notevole dilatazione della discrezionalità giudiziale e del soggettivismo interpretativo specie allorché si tratti di principi o valori ad amplissimo spettro dalla fisionomia indeterminata e vaga, e perciò suscettibili di letture plurime, o allorché si rendano necessarie operazioni di opinabile bilanciamento tra valori concorrenti.
In questo quadro complessivo di riferimento, non sempre è facile distinguere con nettezza la fisiologica interpretazione costituzionalmente orientata dall’interventismo e dalla supplenza giudiziaria indebiti o sconfinanti nell’arbitrio. Ma questa oggettiva difficoltà di distinzione non può indurre ad avallare la più sfrenata libertà interpretativa, ancorché politicamente sorretta da buone intenzioni. Si avverte in ogni caso un’esigenza di misura, di self-restraint per non cancellare – appunto – ogni linea di confine tra diritto e politica latamente intesa. Una necessità di contenimento che non può, a sua volta, essere imposta ai magistrati dall’esterno o per comando autoritativo. Se è vero che la questione del ruolo del giudice ha una complessa natura sistemica che trascende gli specialismi settoriali, l’esigenza di assumerla a oggetto di rinnovati dibattiti il più possibile allargati dovrebbe essere avvertita come un impegno oggi ineludibile, in vista di un più soddisfacente funzionamento non solo del sottosistema-giustizia ma dell’intero sistema democratico.
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