Il caso De Vito è l'ennesimo cortocircuito giustizialista del M5s
Il presidente dell'assemblea capitolina, ai domiciliari nell'ambito dell'inchiesta sullo stadio della Roma, presenta un esposto contro Di Maio, che avrebbe violato il codice etico del movimento
E’ guerra totale nel Movimento 5 stelle romano. Il presidente dell’assemblea capitolina, Marcello De Vito, ha deciso di depositare un esposto al Collegio dei probiviri e al comitato di Garanzia del movimento nei confronti del capo politico Luigi Di Maio, impegnato in queste ore nelle delicate trattative per la formazione di un governo con il Pd. Nell’esposto De Vito, attualmente agli arresti domiciliari per l’accusa di corruzione nell’ambito di uno dei filoni dell’inchiesta sul nuovo stadio della Roma, evidenzia una serie di violazioni dello statuto e del codice etico M5s che sarebbero stati compiuti da Di Maio negli ultimi mesi in relazione alla vicenda giudiziaria che vede coinvolto il presidente dell’assemblea capitolina. Tra le altre cose, De Vito contesta a Di Maio avere parlato di una sua espulsione dal movimento a procedimento penale ancora in corso, espulsione comunque poi mai avvenuta, anche se De Vito è stato di fatto disconosciuto da tutti i suoi colleghi grillini.
L’affondo del presidente dell’assemblea capitolina giunge a pochi giorni dal deposito delle motivazioni della decisione con cui la sesta sezione penale della Corte di Cassazione ha annullato con rinvio, l’11 luglio scorso, l’ordinanza del tribunale del Riesame che aveva confermato l’arresto per De Vito e per l’avvocato Camillo Mezzacapo nell’inchiesta sullo stadio della Roma. Nelle motivazioni, gli ermellini smontano con parole durissime l’intero impianto accusatorio: “congetture”, “enunciati contraddittori”, “dichiarazioni addomesticate”, “automatica criminalizzazione”.
Secondo l’accusa, De Vito (arrestato il 20 marzo e finito agli arresti domiciliari a inizio luglio, dopo tre mesi trascorsi nel carcere di Regina Coeli) avrebbe stretto un patto corruttivo con l’imprenditore Luca Parnasi, interessato ad avere un appoggio nell’iter amministrativo legato alla costruzione del nuovo stadio e all’approvazione del progetto di riqualificazione della zona della ex Fiera. De Vito avrebbe così ricevuto “molteplici utilità”, mascherate attraverso il conferimento di incarichi professionali allo studio dell’avvocato Mezzacapo, che poi avrebbe girato parte dei guadagni allo stesso De Vito. Per i giudici di Cassazione, però, l’impianto accusatorio non sta in piedi.
Le accuse si basano sulle dichiarazioni rese da Parnasi dopo il suo arresto avvenuto nella prima tranche dell’inchiesta (giugno 2018). Tuttavia, nota la Cassazione, “il valore confessorio dell’esistenza di un patto corruttivo, che a tali dichiarazioni è stato attribuito dai giudici capitolini, non rispecchia l’obiettivo tenore delle stesse, potendo pertanto riconnettersi solo a una operazione interpretativa, che assegni loro una portata – per così dire – ‘addomesticata’, che non è stata tuttavia esplicitata, né può logicamente desumersi dagli ulteriori dati indiziari”. Anche il carattere fittizio dei remunerati incarichi conferiti allo studio Mezzacapo, proseguono gli ermellini, “si basa su enunciati contraddittori”, e inoltre il Riesame non avrebbe dato la giusta rilevanza alle giustificazioni fornite in relazione ai bonifici incassati da De Vito, relativi a incarichi professionali effettivamente svolti in precedenza per lo studio di Mezzacapo.
Ma la stroncatura più netta arriva su ciò che secondo i pm rappresenterebbe l’atto contrario ai doveri d’ufficio compiuto da De Vito, cioè l’aver presieduto l’assemblea capitolina del 14 giugno 2017 esprimendo voto favorevole all’approvazione del progetto di costruzione dello stadio. Per la Suprema Corte, la misura cautelare “tralascia di ricordare che la seduta del 14 giugno del 2017 interviene all’esito di un già apprezzabile iter procedurale scandito dopo la presentazione del progetto oltre tre anni prima, sotto la sindacatura Marino, e una prima dichiarazione di pubblico interesse dell'opera da parte della Giunta del tempo, da una convergente dichiarazione pubblica in tal senso dalla sindaca Raggi, pur con l'indicazione di una sensibile diminuzione della cubatura commerciale del progetto e della successiva adozione di una collimante delibera di Giunta cui avevano fatto seguito i pareri positivi delle Commissioni permanenti e del IX Municipio, interessato dall'esecuzione del progetto, prima della seduta”. Il tutto “in assenza di qualsivoglia indice probatorio di un inopinato mutamento di linea da parte della maggioranza consiliare e di un’attività da parte di De Vito finalizzata a scongiurare siffatta (allo stato del tutto congetturale) ipotesi, ovvero ancora di modificare in senso più confacente agli interessi del privato il già palesato favore della maggioranza comunale del complessivo progetto”. Tradotto: il progetto della realizzazione dello stadio aveva già ricevuto l’ok della sindaca Raggi, di tutta la Giunta e pure delle commissioni e del municipio interessato. Non si comprende, quindi, perché Parnasi avrebbe dovuto corrompere De Vito, che inoltre non disponeva certo del potere di condizionare i componenti dell’assemblea.
Infine, anche sulla presunta corruzione avvenuta attorno alla riqualificazione dell’ex Fiera di Roma, i giudici sottolineano che dai magistrati “non viene fornito alcun elemento concreto”, anzi si rintraccia una “pressoché automatica criminalizzazione del livello di interlocuzione politica fra un imprenditore, interessato a un progetto di ampio respiro e di notevole esborso economico, e un soggetto appartenente alla maggioranza politica che dovrà valutare il progetto medesimo”.
De Vito ha commentato con sollievo le motivazioni della Corte, lanciando una stoccata ai suoi (ormai ex) colleghi grillini, che dopo l’arresto scaricarono immediatamente il loro rappresentante più votato alle ultime elezioni: “Continuerò a difendere la mia innocenza, la mia reputazione e la mia onestà in ogni sede, sempre con la dignità che mi contraddistingue dagli altri miei colleghi, che senza scrupolo alcuno fanno comodi proclami senza dimostrare fiducia, garantismo e senza nemmeno il coraggio di autocritica”. Che De Vito ora si appelli al garantismo fa abbastanza sorridere, se si considera che egli ha sempre abbracciato con fierezza la linea giustizialista del M5s, tanto da presentarsi nel 2015 in aula Giulio Cesare con delle arance per invocare il carcere per l’allora sindaco Ignazio Marino, indagato per presunte spese effettuate con la carta di credito del Comune (Marino è stato poi processato e assolto in via definitiva).
E’ vero però che, per uno strano gioco del destino, De Vito è stato vittima del medesimo trattamento forcaiolo da parte dei suoi colleghi di partito. Travolto dall’imbarazzo per l’arresto del proprio rappresentante più in vista, Di Maio annunciò l’immediata espulsione di De Vito: “E’ fuori dal Movimento. Mi assumo io la responsabilità di questa decisione, come capo politico, e l'ho già comunicata ai probiviri”. Venne anche annunciata la sua immediata sostituzione alla presidenza dell’assemblea capitolina. Le cose, però, sono andate diversamente.
L’espulsione di De Vito non è mai avvenuta, dal momento che, secondo lo statuto e il codice etico del M5s, non spetta al capo politico ma ai probiviri comminare sanzioni disciplinari e per di più ciò può avvenire solo in seguito a una condanna di primo grado. De Vito, quindi, avrebbe potuto contestare l’espulsione portando il movimento in tribunale, con il rischio di un’ulteriore figuraccia per i pentastellati. Lo stesso dicasi per la carica di presidente dell’assemblea capitolina: De Vito non si è mai dimesso e i grillini non hanno mai presentato una formale richiesta di revoca (per la quale occorrono 24 firme in assemblea). De Vito è stato sospeso dal prefetto di Roma, in applicazione della legge Severino, ma la sua carica non è decaduta. L’unica vera reazione è stata la rimozione del suo nome dal sito dell’assemblea capitolina, che ora nella sezione “presidente” offre ai visitatori una paradossale pagina vuota. Il 10 settembre il Riesame potrebbe rimettere in libertà il “mister preferenze” pentastellato, che a quel punto potrebbe fare ritorno in assemblea (da presidente), creando ancora più imbarazzo ai grillini.