Catania, Palazzo dell'Università (foto via Wikimedia)

Liberare le università

Annalisa Chirico

Contro la via giudiziaria alla conoscenza. Il sistema universitario diventerebbe più sano se gli atenei fossero in competizione e abolissero i concorsi. Come si fa? Un girotondo

A Catania, ancor prima della pletora di imputati, è finita alla sbarra l’intera università italiana. Con i suoi riti, le sue consuetudini, le sue regole non scritte. “C’è un sistema di nefandezza – commenta, con scarso fair play, il capo della procura etnea Carmelo Zuccaro – È un mondo desolante quando l’espressione della cultura accademica che dovrebbe essere assolutamente non soggetta al potere si sottomette al potere. Bisogna fare i conti con quello che è emerso e voltare pagina”.

 

A Catania è finita alla sbarra l’università italiana ma qualcosa non torna nella semplificazione inquisitoria e tra i follower dei pm

Eppure qualcosa non torna nella semplificazione inquisitoria di una questione che semplice non c’è; resta infatti da comprendere se, al netto delle eventuali condotte criminose, da accertare, spetti alla magistratura indicare la “via giudiziaria” alla conoscenza: il malcostume non è per forza reato, certe forzature non configurano di per sé delitti, la segnalazione dell’allievo di cui si conosce background e preparazione è un mezzo efficiente per minimizzare i costi di transazione e massimizzare la qualità della selezione. Da che mondo è mondo, l’accademia avanza per cooptazione, non con l’esattezza della geometria algebrica: in un ambiente realmente competitivo esiste un intrinseco incentivo a premiare il migliore. È questo il caso italiano? I dubbi sono più d’uno, il Belpaese del resto è quello del valore legale del titolo di studio, dove il “pezzo di carta” conseguito a Catania vale esattamente come a Milano, e così un metodo informativo efficiente rischia di trasformarsi nel terreno di coltura di favoritismi e familismi che, per quanto moralmente deprecabili, non è detto che siano pure penalmente rilevanti. Procediamo allora per gradi, e torniamo nella provincia siciliana, all’ombra del Palazzo degli Elefanti.

  

La Digos esegue 41 perquisizioni nell’ambito dell’inchiestaUniversità bandita”, avviata nel luglio 2015 e conclusa, a distanza di tre anni, con l’autopsia di un “sistema delinquenziale” che decide le carriere universitarie secondo una logica di cooptazione, avulsa dal merito. 27 concorsi “truccati”, secondo la pubblica accusa: 17 per professore ordinario, 4 per professore associato, 6 per ricercatore. La procura locale ipotizza un’“associazione a delinquere”, capitanata dal rettore dell’Università Francesco Basile, volta a condizionare il conferimento di assegni, borse di studio, dottorati di ricerca, fino a ingerirsi nelle decisioni relative all’assunzione di personale tecnico-amministrativo, alla composizione degli organi statutari dell’ateneo (consiglio di amministrazione, nucleo di valutazione, collegio di disciplina) e all’assunzione e progressione in carriera dei docenti.

 

“Sono amareggiato, un tale clamore non fa certo piacere ma io non ho commesso alcun reato – dichiara al Foglio Basile, il Grande Inquisito costretto alle dimissioni e adesso difeso dall’avvocato Attilio Floresta – Io a capo di un’associazione criminale? Non esiste nessun ‘sistema’. Come ho spiegato ai magistrati, gli incontri con colleghi e capi dipartimento si sono sempre svolti nell’ambito dell’attività di concertazione e programmazione di mia competenza. Ho solo esercitato il mio ruolo”. Gli inquirenti la pensano diversamente, e per qualche singolare coincidenza i poliziotti in divisa che varcano la soglia dell’ateneo vengono immortalati dai teleobiettivi di tv e giornali locali, l’impatto è deflagrante ed, essendo coinvolte le commissioni esaminatrici che includono anche professori esterni, ben presto il focus investigativo si estende ad altri atenei al punto di coinvolgere 66 professori, 40 della sola università di Catania, e poi dal resto della penisola, da Firenze a Messina, da Trieste a Napoli, da Milano a Cosenza passando per Roma, Bologna, Chieti-Pescara, Padova, Venezia e Verona. Una retata, sic.

  

Nel mirino dei pm siculi ci sono i cosiddetti “concorsi locali”, quelli che, una volta conseguita l’Abilitazione scientifica nazionale, gestita direttamente dal ministero, sono preordinati al reclutamento del personale docente secondo le esigenze di ricerca e didattica del singolo ateneo. Queste procedure ristrette sono quelle che consentono accordi e scambi tra professori, tu fai passare il mio candidato e io farò altrettanto con il tuo, in un meccanismo che non è di per sé nocivo. I prof hanno remore a parlarne, nel clima infuocato innescato dall’inchiesta “pigliatutti” in pochi sono disposti a rivendicare le prerogative dell’accademia, eppure gli interrogativi che si rincorrono tra gli addetti ai lavori suonano più o meno così: perché un prof dovrebbe reclutare una persona che non ha mai visto prima in vita sua e non invece l’allievo che ha contribuito a formare, di cui conosce grado di preparazione, abilità e competenze? La pretesa “oggettività” di queste selezioni non sta in piedi, anzi chi ci crede, ma il carattere discrezionale delle scelte compiute viene rivendicato dai cosiddetti “baroni” come una precisa responsabilità istituzionale. Abbandoniamo “concorsini” e commissioni farlocche, sono pura finzione scenica: il cambiamento avvenga però per volontà politica e non per iniziativa giudiziaria.

  

Per il professore Roberto Mordacci, preside della facoltà di Filosofia all’Università Vita-Salute San Raffaele, “con l’attuale sistema non stiamo selezionando sempre i migliori. Se non si parte da questa ammissione, nulla cambierà, e la transizione dell’Università italiana resterà un miraggio”. L’Italia, ci sta dicendo, è ancora una volta nel guado. “Siamo nel mezzo di un percorso: da un modello medievale, fondato sull’appartenenza di scuola e sulla trasmissione del sapere dal maestro ai discepoli, come nel caso emblematico di Tommaso d’Aquino, dobbiamo muovere verso uno schema contemporaneo dove la selezione avviene sì per cooptazione ma è sottoposta al giudizio della comunità internazionale”.

 

Insomma, al bando l’ipocrisia, la selezione di docenti e ricercatori non può essere meramente curriculare, lo scambio di informazioni tra professori è fondamentale. “Con questo non s’intende sostenere che le regole attuali vadano bene. Mi spiego: la cooptazione funziona nel mondo anglosassone dove le università competono tra loro e il valore legale del titolo di studio non sanno neanche che cosa sia. Da noi invece laurearsi a Bari vale come a Milano, c’è un livellamento verso il basso che fa sì che gli atenei non abbiano un reale incentivo a reclutare i migliori, piuttosto ogni professore cerca di tenersi i propri, quelli che ha formato e conosce, indipendentemente dalle effettive esigenze di ricerca. Dunque, esiste un problema morale: la ‘ubris’ dei docenti, una buona dose di superbia mescolata all’assenza di umiltà alimenta l’assurda pretesa che i propri allievi siano i migliori a prescindere.

 

Mordacci: “In Italia c’è un livellamento verso il basso che fa sì che gli atenei non abbiano un reale incentivo a reclutare i migliori”

Vi è poi un problema giuridico a causa di una normativa arzigogolata e paradossale: la legge sui concorsi prevede che, in séguito all’abilitazione nazionale, le commissioni locali indichino un concorso per selezionare i migliori sulla base delle competenze in un certo settore disciplinare; nel bando, di norma, viene dettagliata l’attività didattica che il candidato è chiamato a svolgere. Allora, poniamo che in base al primo requisito si classifichi un esperto di storia rinascimentale, magari con la segnalazione del professore che l’ha formato: che succede se, in un secondo momento, ci si rende conto che il dipartimento ha invece bisogno di una persona specializzata in storia contemporanea? Talvolta l’idoneo non viene chiamato, non gli viene assegnata la cattedra, e allora s’inaugura la giostra dei ricorsi”.

 

Questi concorsi locali sono un po’ una finzione foriera di carte bollate e liti da Azzeccagarbugli. “Io dico che è meglio un sistema fondato sul reclutamento diretto e trasparente, senza concorso ma con una cooptazione che tenga conto di un principio di efficacia ed effettiva rispondenza alle esigenze dell’insegnamento. Il concetto dell’appartenenza di scuola non è più sufficiente, è una visione obsoleta quella che spinge un professore di impostazione hegeliana, per esempio, a reclutare i propri studenti al fine di evitare la dispersione di una tradizione filosofica; oggigiorno l’università richiede piuttosto una selezione fondata sulle competenze di settore in un ambiente competitivo, perciò i metodi di valutazione della didattica, della produzione scientifica, della ricerca devono essere effettivi e imparziali. L’attività dell’Anvur (Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario, ndr), fondata nel 2006, può essere accolta come un passo avanti: negli anni, alcuni corsi di studio sono stati giudicati adeguati, altri no”. Lei è preside di facoltà: come si regola in concreto? “La mia regola è: non fare mai promesse a nessuno, per nessuna ragione e nemmeno far supporre che…”.

  

Per Cinzia Caporale, dirigente tecnologo presso il Consiglio nazionale delle ricerche e responsabile della sezione romana dell’Istituto di Tecnologie Biomediche, “sin dai tempi di Galileo, la promozione dei propri allievi è il modo più efficiente per far avanzare l’accademia. Il sistema cooptativo funziona perché minimizza i costi di transazione. La mera presentazione di un curriculum, dei titoli acquisiti e delle pubblicazioni scientifiche non è in grado di fornire un quadro generale sul candidato. Il professore che conosce quel giovane perché ha contribuito alla sua formazione è in grado di rappresentarne la predisposizione al lavoro di squadra, i tratti della personalità, l’adesione a una determinata scuola di pensiero. Nell’università queste caratteristiche fanno la differenza. Va da sé che la ‘cooptazione familistica’ invece è un male, non so se sia reato e non spetta ai docenti giudicarlo, ma certamente è un malcostume da sanzionare. Se moglie e marito si fanno favori a vicenda, si arriva allo spaccio del candidato taroccato del quale vengono propalate informazioni non veritiere e dunque fuorvianti. Ma la segnalazione o raccomandazione, che dir si voglia, fa parte del sistema accademico, ed è bene che avvenga nella trasparenza, per questo la chiamata diretta è più responsabilizzante mentre le procedure concorsuali intermedie andrebbero abolite tout court”.

  

Secchi: “L’accademia rischia di sprofondare nel burocratismo più becero: è ora di abolire il valore legale del titolo di studio”

Per l’economista Carlo Secchi, già rettore dell’Università Bocconi dal 2000 al 2004, “il concorso locale, così com’è, non funziona, si riduce a una burla, non a caso alcuni atenei hanno deciso autonomamente di escludere dai bandi i candidati provenienti dalla stessa università. Nel sistema anglosassone non esiste un’abilitazione nazionale come in Italia ma l’accesso alla tenure track prevede una fase di valutazione in cui si coinvolgono i massimi esperti di un determinato settore a livello internazionale. Il nostro attuale sistema invece è troppo meccanicistico nella fase locale: in certi posti funziona, in altri no, basta osservare la qualità di certi professori in circolazione... La fase di abilitazione nazionale, a mio giudizio, non dovrebbe basarsi solo su criteri bibliometrici. Oggi l’accademia rischia di sprofondare nel burocratismo più becero, invece essa deve restare altamente competitiva e attrattiva per rispondere davanti ai propri stakeholder, mercato e famiglie inclusi. Il valore legale del titolo di studio va abolito: la laurea conseguita a Terni non può valere come quella alla Sorbona, lo capisce chiunque”.

  

Nel corso della sua carriera, Luigi Nicolais, già ministro della Funzione pubblica nel governo presieduto da Romano Prodi e presidente del Cnr dal 2012 al 2016, ha insegnato Ingegneria in diversi atenei statunitensi e tedeschi: “In America non esiste il concetto di ‘sistema universitario’ perché gli atenei sono privati o posseduti dai singoli stati, in Germania invece c’è una massiccia presenza dello stato federale, tuttavia, sia in un caso sia nell’altro la cooptazione è il metodo ordinario di selezione del personale docente. I professori sono investiti della responsabilità di guidare lo sviluppo del proprio gruppo di ricerca, e rispondono delle proprie scelte. Esistono meccanismi per un’effettiva valutazione ex post. Il problema italiano invece è che c’è cooptazione senza valutazione successiva. L’Anvur non funziona a tale scopo, un capo dipartimento deve rispondere della qualità del lavoro svolto sotto la sua competenza, di un prof bisogna conoscere quanti finanziamenti ha saputo convogliare, quanti brevetti ha depositato, quante pubblicazioni ha prodotto. Chi non raggiunge buoni risultati va punito. Sia chiaro: può capitare di fare scelte sbagliate anche in buona fede, le pecore nere esistono in ogni categoria, magistratura e politica incluse. Tuttavia la domanda è quali anticorpi assumiamo per ottimizzare il risultato finale. Se i concorsi locali non funzionano e si prestano a ingerenze indebite, è anche vero che neppure il concorso nazionale può essere considerato soddisfacente: esso crea una sorta di ‘professore potenziale’ senza fissare un limite numerico, così congegnato è privo di logica. Aggiungo poi che un prof universitario non può essere reclutato secondo le stesse modalità di un insegnante delle scuole medie: il secondo insegna ciò che è scritto nei libri, il primo invece deve insegnare ciò che è ancora da scrivere. Al personale universitario si chiede qualcosa in più: una dose di creatività, l’inserimento in una rete di ricerca internazionale, e via discorrendo. Perciò la valutazione non può ripiegarsi sul passato ma deve esplorare il potenziale del candidato per il futuro”.

  

Si avverte un filo di pessimismo nelle parole di Gilberto Corbellini, professore ordinario di Storia della medicina all’Università La Sapienza di Roma: “Tutti sanno come funzionano le commissioni, l’inchiesta catanese ha svelato il segreto di Pulcinella. Da anni si annuncia la grande riforma dell’Università ma poi nulla succede. Nessuno ha interesse a cambiare lo stato dell’arte perché ciò comporterebbe la rinuncia al potere”. Il concetto stesso di “concorso” sembra cozzare con la dinamica accademica. “Il concorso è un’idea demenziale partorita da chi evidentemente non ha idea di come funzioni l’università nei paesi più avanzati del mondo. Il concorso, nella versione italiana, funziona all’incirca così: tu nomini una commissione che opera una selezione e poi, conclusa la selezione e sfornati i nomi dei designati, i commissari salutano e se ne vanno. Costoro non rispondono minimamente delle scelte compiute mentre l’Università deve farsi carico dei promossi. E’ un gioco perverso, unico nel suo genere, perché in qualunque consiglio di amministrazione, se un componente svolge un ruolo di governance, è chiamato a rispondere delle decisioni assunte. In queste commissioni invece si registra un incredibile unanimismo, nessuno è pagato per perseguire l’interesse dell’ente ma prevale una concezione patrimoniale del bene pubblico: tu fai passare il mio candidato e io faccio passare il tuo”.

 

Corbellini: “Il concorso è un’idea demenziale partorita da chi non ha idea di come funzioni l’università nei paesi più avanzati del mondo”

Un pesante j’accuse. “I professori universitari si sentono parte di una casta, altrimenti sarebbero i primi a esigere, a gran voce, regole nuove. Un ente come l’Anvur, per esempio, non esiste nel mondo anglosassone: questa burocrazia, che costa centinaia di milioni di euro, ha prodotto solo cartacce e graduatorie inutili, a spese dei contribuenti. Se devo spiegare a un collega inglese che cos’è il Cun (Consiglio universitario nazionale, ndr), non trovo le parole giuste: come faccio a dirgli che esiste una specie di cupola dei professori riuniti in un super sindacato? Il collega stenta a credermi. Nel mondo anglosassone c’è la cooptazione diretta dei migliori che vengono sottoposti al giudizio di un comitato ristretto formato dai due o tre principali esperti internazionali in un determinato settore. La selezione è trasparente e dunque controllabile, c’è un criterio di accountability. Qui invece perdiamo il tempo a scandalizzarci per il caso siciliano, come se fosse l’eccezione e non la regola. Non mi riferisco agli eventuali aspetti penali su cui solo la magistratura potrà fare chiarezza, io parlo della grande impostura dei concorsi locali, finalizzati esclusivamente a conferire una parvenza di oggettività a scelte assolutamente discrezionali. La discrezionalità, in ambito accademico, non è affatto un male se si accompagna alla competitività del sapere e delle competenze. La meritocrazia non passa per i concorsi ma per la liberalizzazione delle università: basta valore legale del titolo di studio, sì alla concorrenza tra atenei, così dotati di un intrinseco incentivo a reclutare i migliori”.