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Le peripezie del lavoro tra posti vuoti e giovani in fuga (contenti)

Daniele Bonecchi

Il paradosso dei dati in due studi. Il lavoro a Milano cresce, ma l’estero attrae di più. Strategie pubbliche e danni grillini

Le Olimpiadi invernali appena conquistate (con Cortina) per l’edizione invernale del 2026, si misurano anche in posti di lavoro. Secondo i dati raccolti nei mesi scorsi, l’organizzazione dei Giochi comporterà “un aumento medio di circa 5.500 unità di lavoro a tempo pieno, con un picco nel 2026 pari a oltre 8.500 unità”. Più l’indotto di altre 20 mila posti in Lombardia. Ma al di là del colpo grosso messo a segno da Beppe Sala e Attilio Fontana, non è tutto oro quello che splende, perché la distanza tra domanda e offerta cresce e spesso penalizza imprese e lavoratori. In Lombardia, secondo le analisi delle imprese per l’anno 2018 – in una elaborazione della Camera di commercio di Milano Monza Brianza Lodi appena pubblicata – è stato difficile trovare i candidati giusti nel 28 per cento dei casi, pari a 166 mila ingressi su un totale di 666 mila, un dato in linea con quello italiano. Più facilità di selezione a Milano col 25 per cento pari a 72 mila ingressi difficili su 291 mila totali. In Lombardia, su 666 mila ingressi nel 2018, i più difficili da trovare sono stati gli specialisti in scienze matematiche, informatiche, fisiche e naturali (57 per cento e 8.240 ingressi). E questo è lo specchio di un gap ancora forte nel settore delle Stem. Ma difficoltà ci sono state anche nel reperire artigiani e operai specializzati in metalmeccanica ed elettronica (51,5 per cento e 54.630 ingressi) e operai specializzati in meccanica di precisione, stampa e gli artigiani artistici con una difficoltà di reperimento del 49,1 per cento su un totale di 3.260 ingressi.

 

Insomma, al di là del pallottoliere che mette in fila le difficoltà, è necessario costruire una rinnovata sintonia tra domanda e offerta. Anche per trattenere in Italia i giovani talenti che cercano spazio all’estero. E proprio il tema del valore dei talenti è stato al centro di un approfondimento della Camera di commercio, coi dati dell’indagine “Talenti italiani all’estero. Perché tanti partono e pochi ritornano”, condotta dall’ufficio studi di PwC Italia su 130 giovani italiani che vivono e lavorano all’estero. Il campione, composto per il 53 per cento da donne e per il 47 per cento da uomini residenti in 20 diversi paesi, è rappresentato per il 43 per cento da under 30 e il 90 per cento ha almeno una laurea. Obiettivo dell’indagine, individuare le principali ragioni che spingono i giovani italiani a spostarsi all’estero, le motivazioni per cui sarebbero disposti a ritornare in Italia e i principali fattori che disincentivano il loro rientro. Il 50 per cento si definisce in fuga dalle criticità del mercato globalizzato e solo il 29 per cento si definisce a caccia di opportunità in un mondo globalizzato. Gli expat vedono l’Italia come un paese dalle scarse prospettive: l’85 per cento ritiene che il paese in cui lavora offra migliore contesto professionale e maggiori prospettive di carriera. Il 26 per cento non tornerebbe più in Italia, anche a fronte di un’offerta più remunerativa o prestigiosa, mentre il 68 per cento tornerebbe ma solo a fronte di una posizione con uguale o maggiore prestigio e remunerazione. Il 60 per cento di questi giovani da quando è all’estero non ha più cercato opportunità in Italia, solo il 16 per cento resta attivo nella ricerca.

 

Quali sono i fattori che più li trattengono dal tornare in Italia? Secondo Andrea Toselli, ceo di PwC Italia, “gli incentivi fiscali servono, ma oggi le aziende devono fare la propria parte non solo per attrarre i talenti ma anche per creare un contesto di lavoro stimolante, migliorare il work-life balance e offrire un percorso di carriera più rapido e trasparente”. Il 31 per cento è infatti trattenuto all’estero dalle limitate prospettive di carriera e crescita professionale. Inoltre per il 28 per cento gli stipendi sono troppo bassi, il 26 per cento dichiara che c’è una migliore qualità della vita all’estero. Infine, il 21 per cento indica un contesto lavorativo poco stimolante. Ma al netto dei cervelli in fuga, la risposta messa in pratica dal governo col reddito di cittadinanza “sarà la tomba delle politiche attive del lavoro”, come spiega sul suo blog il giuslavorista Pietro Ichino:  “Lo schema varato dal governo per la lotta alla povertà si presenta come misura essenzialmente collocata sul terreno delle politiche del lavoro; ma è viziato da alcuni gravissimi errori di struttura evidenti proprio sulla scorta delle esperienze più recenti e avanzate su questo terreno, e distrugge quel che di buono si era incominciato a fare”, osserva Ichino. Il Comune di Milano – dopo il salto nel buio di Afol Metropolitana, coinvolta (l’indagine è in corso) nelle vicende giudiziarie portate avanti dalla Dda per un presunto giro di mazzette – ha deciso di fare tabula rasa e di ricostruire ex novo l’attività del più importante strumento di formazione e intermediazione del lavoro di cui dispone. Beppe Sala ha nominato in questi giorni il nuovo cda di Afol Metropolitana, affidando la presidenza a Ferruccio Del Conte, già alla guida di Anpal Servizi a Roma. Del Cda fanno parte anche il giuslavorista Ichino, tra gli ispiratori del Jobs Act e Valeria Sborlino. Una governance di prestigio con l’obiettivo dichiarato di voltare pagina e dare un segnale forte al governo del “reddito di cittadinanza”. Senza dimenticare i problemi che il matching tra impresa e lavoro ha fatto emergere.