Foto di Thomas Martinsen via Isorepubblic

Girodiruota – GiroDiVino

Meglio bere e pedalare che lavorare

Giovanni Battistuzzi

La quarta tappa del Giro d'Italia 2020 doveva lambire le tenute che furono di Ignazio Spataro, donnaiolo che si ritirò in campagna e che chiamò il suo catarratto Gastone in memoria dell'amico Brilli-Peri

Da leggere bevendo un Catarratto "Miano" della cantina Castellucci Miano, Valledolmo (PA)

 


 

Quando don Ruggero Spataro morì la Prima guerra mondiale era finita da pochi giorni e i suoi affari non erano mai andati così bene. Era partito da pochi campi di cotone, acquistati con i soldi di un’eredità quando era ventino e poi, negli anni e con le amicizie giuste, aveva esteso i suoi interessi verso tutto ciò che portava piccioli: pescherecci, tenute agricole, torreffazioni, diverse carbonaie e pure una zolfara. S’era preso anche un palazzo in centro a Palermo e lì s’era fatto il nome di persona rispettabile. A lui che era nato in campagna, la città gli era sempre piaciuta e già si prefigurava una vecchiaia urbana e lussuosa quando un malore durante la notte non lo fece più alzare dal letto. 

 

Don Ruggero Spataro oltre a un’enorme ricchezza lasciò tre figli. Armando e Rosario avevano seguito le orme dello zio e si erano trasferiti a Roma a fare studi economici. Ignazio, il più piccolo, invece era rimasto in Sicilia, ché lui mica era fatto per gli studi. Non per stupidità, solo che non aveva tempo per libri e manuali dato che di ben altre cose erano piene le sue giornate. Gli affari erano per lui tempo sprecato e il far di conto era unicamente la capacità di levarsi dagli impicci nel momento giusto per evitare di accasarsi. Peggio la galera per uno come lui che passava i suoi giorni all’inseguimento di gonnelle da sedurre. E alto, atletico e biondiccio com’era questi suoi inseguimenti raramente erano vani. Quando non si dedicava alla seduzione, Ignazio era solito pedalare sulla sua scintillante bicicletta da corsa, quella che aveva comprato a Firenze su suggerimento dell’amico di scorribande Gastone Brilli-Peri, prima di ritornarsene a casa dopo aver capito che la carriera ciclistica non faceva per lui. 

 

Quando Armando, Rosario e Ignazio si ritrovarono per accordarsi su come gestire gli affari del padre, il più giovane disse agli altri che potevano dividersi tutto in cambio di un vitalizio e di un appartamento a Palermo, che tanto lui di faticare non aveva voglia. Poi chiese anche i terreni verso Fontanamurata, che a lui il vino piaceva e quelle erano buone zone per passeggiare in bicicletta. Armando e Rosario, che avevano fatto studi economici, trovarono la richiesta del fratello per loro vantaggiosa e accettarono di buon grado. 

 

Della tenuta a Ignazio per anni gliene fregò il giusto. Solo rapide visite, magari ben accompagnato, per controllare i conti e prendere il vino. Fu solo quando rischiò grosso a causa delle sue abitudini di fimminaro che si trasferì alla masseria. Scrisse all’amico Gastone Brilli-Peri, che “pedalare tra i colli e gustarsi la vita con un bicchiere in mano è cosa eccellente” e che aveva grandi idee per ingrandire la produzione ora che a Palermo non ci andava più. Brilli-Peri, che da anni aveva smesso di inseguire la velocità in bicicletta e aveva iniziato a farlo in macchina, gli promise che a maggio, invece di incontrarsi in città dopo la Targa Florio, l’avrebbe raggiunto in campagna. Non mantenne la promessa, il 22 marzo 1930 “poco dopo le ore 13, mentre in circuito chiuso il corridore Gastone Brilli Peri provava il percorso della gara, giunto in località Suk El Giuma, a 5 km da Tripoli, perduta la padronanza della sua potente macchina, andava a cozzare contro il muricciolo di un giardino. L'automobile filava in quel momento ad una velocità di 180 km all'ora. L'urto è stato tremendo. Sbalzato dal sedile, il valoroso pilota toscano rimaneva ucciso sul colpo”, scrisse la Nazione. Ignazio chiamò Gastone, in onore dell’amico, il vino catarratto che proprio quell’anno aveva iniziato a coltivare. 

 


 

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